martedì 01 Aprile 2025, 10:36
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di David Lynch con Naomi Watts, Jeanne Bates, Laura Harring, Robert Forster, Brent Briscoe Francia/USA 2001 145′
Quando si parla di Mulholland Drive, tutti hanno una propria soluzione. È tutto un sogno, è un viaggio tra realtà parallele che si sovrappongono, è l’ennesima opera incomprensibile di un pazzo a cui han rifilato una macchina da presa… tutto vero, tutto falso. Sarà scontato dirlo, ma Mulholland Drive è un film che più di altri necessita della partecipazione dello spettatore, della sua completa attenzione, della sua esperienza per ottenere significato. Insomma, Mulholland Drive è un film interattivo. Siamo dalle parti delle care, gloriose, avventure grafiche degli anni ’90, dove la storia ha un inizio e una fine prestabiliti; ma come percorrere questa strada spetta totalmente al giocatore. Lo suggerisce David Lynch stesso: «Alcuni hanno uno spirito letterale e temono le astrazioni. Si sentono perduti. Vogliono che 2 + 2 = 4. Ce ne sono altri, più intuitivi, che non domandano di meglio che perdersi. Quelli si concedono all’esperienza e arrivano a 4 attraverso altri percorsi». (David Lynch intervistato su Positif n. 490, dicembre 2001).
In Mulholland Drive non abbiamo pulsanti da premere, oggetti da cercare o linee di dialogo da pronunciare, il nostro compito è trovare una via per la soluzione finale, che in realtà, per quanto riguarda almeno la fabula, non è così intricata come sembra. La bionda Diane (Naomi Watts), con i soldi della zia morta e sull’onda dell’entusiasmo per aver vinto una gara di ballo jitterbug, è arrivata a Los Angeles cercando fortuna a Hollywood. Si ritrova invece a fare la cameriera, ma almeno conosce la sensuale Camilla (Laura Harring), attrice in ascesa, con la quale vive un’intensa relazione lesbica. Camilla, però, preferisce la compagnia del regista Adam (Justin Theroux), che sposa per fare carriera, rompendo con Diane che non la prende bene, tanto da decidere di assoldare un killer e farla ammazzare. A cose fatte, disperata, Diane sogna gli ultimi giorni della sua vita mescolando fatti, volti, nomi, luoghi, oggetti e rivivendoli come se fosse un film, per poi spararsi in testa in preda al rimorso. Bum! Pare tutto risolto; qual è il mistero allora? Semplice, tutto il resto.
Dapprima nel mescolamento temporale proposto da Lynch, con i primi due terzi di film dedicati esclusivamente al sogno di Diane e solo in seguito a ciò che pare effettivamente successo, cosa che crea un fortissimo spaesamento (almeno alla prima visione) anche perché quanto viene raccontato è tutta un’altra cosa. Ovvero: un’avvenente mora (Laura Harring) scampa a un incidente automobilistico, ma le contusioni le hanno provocato un’amnesia quasi totale. Trova riparo nell’appartamento della zia di Betty, al momento occupato da quest’ultima (Naomi Watts), appena giunta a Los Angeles per fare l’attrice. Betty decide di aiutare la smemorata (che si chiama provvisoriamente Rita), un po’ perché se ne è innamorata, un po’ perché nella borsa ha un sacco di soldi e una strana chiave blu triangolare. Mentre il regista Adam (Justine Theroux) si vede rovinare la vita da dei produttori/gangsters, durante le loro indagini Betty e Rita si imbattono nel cadavere di una donna chiamata Diane e in un locale, il Club Silencio. Dopo aver assistito a uno spettacolo, Betty trova nella borsetta un cubo blu, che pare aprirsi con la chiave triangolare. Rita apre il cubo, tutto scompare e il film ricomincia nella stanza da letto di Diane, con la sua storia “parallela”. La faccenda comincia a farsi complicata, e senza tirare poi in ballo tutti i personaggi e i fatti di contorno che imperversano sia nella parte “sognata” che in quella “reale”.
La concatenazione, cronologica o meno, delle sequenze, micro o macro che siano, indica una progettualità, uno sviluppo predeterminato, e quindi un percorso, con una sua (almeno presunta) fine e un suo scopo. Sta allo spettatore/giocatore trovarlo, senza alcun indizio se non quanto si vede sullo schermo e la (quasi) certezza che, ben nascosto da qualche parte, un senso a tutto c’è, uno qualsiasi. Certo, ci sono delle cut-scene, sequenze cui bisogna per forza passare per proseguire con il gioco, come lo spettacolo in playback al Club Silencio e l’apertura del cubo blu, che ci piace immaginare di Schroedinger, scatola con dentro (o forse no) il celebre gatto vivo e morto, contenitore di realtà simultanee e ghignanti demoni prezzolati, slot machine quantistica che rimescola le carte e fa ripartire il gioco. Mulholland Drive è un open world dove possiamo muoverci a piacimento per ricollegare fatti, luoghi, nomi, frasi che ci indichino la direzione verso il prossimo mistero, nella speranza di non dover ridiscutere quanto accertato fino allora, perché come in un’avventura grafica, c’è il rischio fortissimo di incartarsi, di seguire una strada e trovarsela sbarrata subito dietro una curva, di arrivare al game over e dover ricominciare nel migliore dei casi dall’ultimo “save”. E in questi casi, l’unica è giocare di nuovo, e ancora, e ancora. Fosse davvero un videogame, Mulholland Drive avrebbe una rigiocabilità pazzesca. Come minimo.
CONVOCAZIONE ASSEMBLEA DEI SOCI DEL CIRCOLO ARCI EUGENIO CURIEL
Cari soci, è convocata l’Assemblea del nostro Circolo in data venerdì 28 marzo 2025,alle ore 20.00 in prima convocazione e alle ore 20.30 in seconda convocazione, presso la sala del Centro Civico Primo Levi s San Canzian d’Isonzo, con all’ordine del giorno:
Relazione del Presidente
Presentazione bilancio consuntivo 2024 e preventivo 2025
lunedì 17 Marzo 2025, 11:13
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di Wim Wenders con Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski, Dean Stockwell, Aurore Clément, Hunter Carson, Bernhard Wicki, Socorro Valdez, John Lurie, Justin Hogg, Edward Fayton USA 1984 145′
Gli spazi infiniti del deserto americano attraversati da un vagabondo in chiaro stato confusionale: è l’inizio folgorante di Paris, Texas che gioca da subito la carta dello spaesamento e del contrasto. Wim Wenders inquadra rocce, cieli e orizzonti stabilendo una nuova geografia interiore: questi luoghi non sono più semplici sfondi ma indizi rivelatori di uno stato dell’anima. Travis (Harry Dean Stanton) li attraversa come un fantasma alla ricerca del proprio luogo d’origine, tabula rasa di memoria e linguaggio. Là dove è la nascita di tutte le cose, lì si compie anche la loro dissoluzione, in un viaggio che è principalmente dimenticarsi di sé e imparare a guardare il mondo.
La fotografia di Robby Müller inonda queste terre desolate di una luce che William Faulkner avrebbe definito “fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica”. Travis ha lo stupore catatonico di un Ulisse che ha perso contemporaneamente Penelope e Telemaco e non ritorna a casa ma, amaramente, nel nulla che lo ha generato. La chitarra di Ry Cooder accompagna con una sottile malinconia questa disgregazione dell’unità familiare, in uno strappo del passato che il tempo non riesce a risanare. Travis viene recuperato dal fratello Walt (Dean Stockwell) ma fatica a inserirsi nella vita civile dopo quattro anni di esilio “in the middle of nowhere”.
Ma Paris, Texas nella seconda parte diventa un atto di contrizione, una consapevolezza che si trasforma in espiazione. Ritornato in sé, venendo a contatto con Hunter, il figlio perduto, Travis ne assume la purezza dello sguardo. Esemplare la scena di padre e figlio che si copiano le camminate ai lati opposti della strada: in quel campo-controcampo risiede tutta la magia di un cinema che svela il segreto del sentimento nascente.
Wenders pone la macchina da presa ad altezza bambino e viaggia da Los Angeles ad Houston con questo particolare punto di vista: le insegne al neon, i tramonti rosso fuoco, le nuvole basse. Tutto è visto come se fosse la prima volta. L’utilizzo delle lenti bifocali pone in primo piano contemporaneamente paesaggio e volto, sottolineando l’importanza dell’elemento naturale sulla mutazione dell’espressione umana. Jane (Nastassja Kinski) si guadagna da vivere lavorando in uno squallido peep-show dalle forti tinte bluastre e rossastre. È la madre dimenticata, la moglie traditrice. Wim Wenders, in maniera geniale, mette Travis e Jane uno di fronte all’altra separati da una parete di vetro trasparente che consente all’uomo di potere osservare senza essere visto. Dalle autostrade assolate americane passiamo improvvisamente ai toni scuri di un teatrino di periferia con annessa rock band.
Nell’ultimo confronto in cui è la voce umana a prendere il sopravvento (Jane ammetterà a capo chino “Ogni uomo ha la tua voce”), Sam Shepard (co-sceneggiatore del film insieme a Wenders e Kit Carson) propone un dialogo molto realistico, fatto di ammissioni e di accuse, di consapevolezza e perdono, di vigliaccheria ed eroismo. Proprio questa lunga confessione finale trasforma l’assenza visiva in flusso di coscienza in “vivavoce,” restituendo la drammaticità di una storia d’amore impossibile archiviata in un Super 8 amatoriale. Jane e Travis si scambiano continuamente i ruoli, dandosi le spalle, tra la luce e l’oscurità. Nastassja Kinski usa tutta la sua bravura d’attrice nella comunicazione non verbale passando da un atteggiamento offensivo ad uno di placida arrendevolezza. Nel momento in cui si riconoscono, il loro sentimento è diventato di pietra. Jane spegne la luce e può adesso vedere al di là del vetro. Travis compie l’unico gesto che possa dare un senso alle loro esistenze; poi può riprendere il suo viaggio alla cieca, lasciando che siano i luoghi a dettare la direzione.
Palma d’oro a Cannes nel 1984, Paris, Texas è il film di Wenders che meglio amalgama il cinema classico americano con il Nuovo Cinema Tedesco: tra deserti aridi e intrecci di autostrade il viaggio del protagonista si trasforma in un percorso circolare ed eterno, una odissea nello spazio interiore con qualche accecante barlume di consapevolezza. Sentieri Selvaggi, Fabio Fulfaro
lunedì 10 Marzo 2025, 11:06
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Crna Macka, Beli Macor di Emir Kusturica con Bajram Severdzan, Florijian Ajdini, Srdjan ‘Zika’ Todorovic Jugoslavia/Francia. 1998 120′
Magistrale divertissement diretto da Emir Kusturica (anche sceneggiatore con Gordan Mihic) dopo il successo e le feroci polemiche di Underground (1995), con annesso sostanziale esilio dalla Bosnia e da Sarajevo. Se Underground rappresentava una cesura fondamentale nella vita e nella carriera di Kusturica, Gatto nero, gatto bianco è insieme l’alba di un nuovo autore e l’ultima, tanto di maniera quanto straordinaria, opera d’arte del Kusturica che fu. Esagitato, forsennato, esilarante e irriducibile a qualsivoglia limite di forma, il film è un affresco e un meraviglioso omaggio al lato più vitale e assolato della cultura zingara. Non c’è la durezza della vita di Il tempo dei gitani (1988), c’è solo l’insopprimibile vitalismo di canaglie e maneggioni senza vera violenza, senza vero conflitto, senza il lato oscuro. Una pellicola solare e vitale, una fuga nella fantasia e nella bulimia compositiva per risollevarsi dal peso di un lavoro troppo grande e troppo sanguinoso come il precedente. Con Gatto nero, gatto bianco, il regista ha cercato di levitare, di alzarsi dal suolo senza peso come molti dei suoi eroi. Forse eccessivo, ma a tratti irresistibile. Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia. Musiche di Vojislav Aralica, Nele Karajlic e Dejan Sparavalo. LongTake
lunedì 03 Marzo 2025, 11:28
Filed under: cinemapiù 46
A Private Function di Malcolm Mowbray con Michael Palin, Maggie Smith, Denholm Elliott, Reece Dinsdale, Alison Steadman, Bill Paterson Gran Bretagna 1984 93′
Garbata commedia inglese venata da un sottile umorismo britannico che ne fa un film intelligente, valorizzato dall’originalità del soggetto e dalla presenza nel cast (tra i protagonisti) dell’ex Monty Python Michael Palin, in qualche modo capace di far risorgere, a tratti, l’inconfondibile comicità del gruppo madre. Siamo nel 1947, nell’immediato dopoguerra e il razionamento della carne costringe i ricchi a comprarla di nascosto, illegalmente. Così, per festeggiare debitamente le nozze tra Filippo di Edimburgo ed Elisabetta, un gruppo di nobili alleva in gran segreto il maiale che dovrà servire per il banchetto. Ma un callista (Palin), spinto da una moglie (Maggie Smith) smaniosa di tentare l’arrampicata sociale, lo ruberà. Palin è impagabile quando parla del suo lavoro (calli, verruche e geloni) durante le cene in famiglia, la Smith gli tiene testa con un’interpretazione godibilissima che accende frequenti, spassosi duetti. Purtroppo la sceneggiatura fatica a tenere alto il ritmo e non di rado Pranzo Reale si affloscia. Ma poi risorge con delicatezza, con annotazioni comiche riuscite, con personaggi (la madre settantaquattrenne) non banali e trovate insolite, mantenendo sempre quell’apparente serietà nelle interpretazioni che, in contrasto con le follie quasi surreali che vediamo in scena, provoca le risate. Se insomma cercate un buon esempio di english humour lo trovate in Pranzo Reale, in una direzione degli attori corretta, un’ambientazione insolita e una regia (di Malcolm Mowbray, che dopo questo film verrà chiamato in America a dirigere Il Macellaio, con John Lithgow) non esaltante ma abbastanza pimpante. Un film lontano dalla grandeur statunitense. Il Davinotti
Mean Streets di Martin Scorsese con Robert De Niro, Harvey Keitel, David Proval, Amy Robinson, Richard Romanus, Cesare Danova, Victor Argo, David Carradine, Robert Carradine USA 1973 110′
Mean Streets parlava del Sogno Americano, secondo il quale chiunque può diventare ricco in fretta, e se non ci riesce con i metodi legali, può sempre farlo con quelli illegali. Il crollo dei valori è ancora una realtà odierna, e mi piacerebbe fare un altro paio di film sullo stesso tema. L’idea di questi ragazzi è quella di fare soldi, magari un milione di dollari o due, rubando, picchiando o truffando qualcuno. È molto più facile che riuscire a guadagnarli onestamente. All’inizio della sceneggiatura di Mean Streets c’era una citazione tratta da un brano di Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues, che diceva: “Hai studiato per vent’anni e ti hanno assegnato il turno di giorno”. E un’altra che diceva, “scordatelo, non lo faremo”. Ovviamente Dylan intendeva cose diverse. Ma io volevo descrivere un’attitudine, volevo capire perché queste persone si trovassero in determinate situazioni, la cui unica via d’uscita era spesso la morte. […] Coloro che erano maggiormente rispettati nel quartiere dove sono cresciuto, non erano i lavoratori, ma i dritti, i capo-banda e i preti. Fu questo che mi spinse a tentare di diventare un prete, che temo sia un mestiere ancora più difficile! Mean Streets fu un tentativo di rappresentare me e i miei amici sullo schermo, di mostrare come vivevamo, cos’era la vita a Little Italy. In un certo senso era un trattato antropologico o sociologico. Charlie si serve delle altre persone, ed è convinto di aiutarle; ma così facendo, egli non solo rovina loro, ma anche se stesso. Quando lotta con Johnny davanti alla porta, in strada, si comporta come se lo stesse facendo per gli altri, ma in realtà lo fa soltanto per il suo orgoglio, il primo peccato della Bibbia. La mia voce si sovrappone spesso a quella di Charlie per tutto il film; era un modo per cercare di trovare un accordo con me stesso, di redimermi. Non è difficile imporsi di andare a messa la domenica. Non è questa la redenzione, per me: redenzione è il modo in cui vivi, il modo in cui ti comporti con gli altri, sia nelle strade, che a casa, che in ufficio.
Martin Scorsese, Scorsese secondo Scorsese, a cura di Ian Christie e David Thompson, Ubulibri, Milano 2003
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