lunedì 03 Marzo 2025, 11:28
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A Private Function di Malcolm Mowbray con Michael Palin, Maggie Smith, Denholm Elliott, Reece Dinsdale, Alison Steadman, Bill Paterson Gran Bretagna 1984 93′
Garbata commedia inglese venata da un sottile umorismo britannico che ne fa un film intelligente, valorizzato dall’originalità del soggetto e dalla presenza nel cast (tra i protagonisti) dell’ex Monty Python Michael Palin, in qualche modo capace di far risorgere, a tratti, l’inconfondibile comicità del gruppo madre. Siamo nel 1947, nell’immediato dopoguerra e il razionamento della carne costringe i ricchi a comprarla di nascosto, illegalmente. Così, per festeggiare debitamente le nozze tra Filippo di Edimburgo ed Elisabetta, un gruppo di nobili alleva in gran segreto il maiale che dovrà servire per il banchetto. Ma un callista (Palin), spinto da una moglie (Maggie Smith) smaniosa di tentare l’arrampicata sociale, lo ruberà. Palin è impagabile quando parla del suo lavoro (calli, verruche e geloni) durante le cene in famiglia, la Smith gli tiene testa con un’interpretazione godibilissima che accende frequenti, spassosi duetti. Purtroppo la sceneggiatura fatica a tenere alto il ritmo e non di rado Pranzo Reale si affloscia. Ma poi risorge con delicatezza, con annotazioni comiche riuscite, con personaggi (la madre settantaquattrenne) non banali e trovate insolite, mantenendo sempre quell’apparente serietà nelle interpretazioni che, in contrasto con le follie quasi surreali che vediamo in scena, provoca le risate. Se insomma cercate un buon esempio di english humour lo trovate in Pranzo Reale, in una direzione degli attori corretta, un’ambientazione insolita e una regia (di Malcolm Mowbray, che dopo questo film verrà chiamato in America a dirigere Il Macellaio, con John Lithgow) non esaltante ma abbastanza pimpante. Un film lontano dalla grandeur statunitense. Il Davinotti
Mean Streets di Martin Scorsese con Robert De Niro, Harvey Keitel, David Proval, Amy Robinson, Richard Romanus, Cesare Danova, Victor Argo, David Carradine, Robert Carradine USA 1973 110′
Mean Streets parlava del Sogno Americano, secondo il quale chiunque può diventare ricco in fretta, e se non ci riesce con i metodi legali, può sempre farlo con quelli illegali. Il crollo dei valori è ancora una realtà odierna, e mi piacerebbe fare un altro paio di film sullo stesso tema. L’idea di questi ragazzi è quella di fare soldi, magari un milione di dollari o due, rubando, picchiando o truffando qualcuno. È molto più facile che riuscire a guadagnarli onestamente. All’inizio della sceneggiatura di Mean Streets c’era una citazione tratta da un brano di Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues, che diceva: “Hai studiato per vent’anni e ti hanno assegnato il turno di giorno”. E un’altra che diceva, “scordatelo, non lo faremo”. Ovviamente Dylan intendeva cose diverse. Ma io volevo descrivere un’attitudine, volevo capire perché queste persone si trovassero in determinate situazioni, la cui unica via d’uscita era spesso la morte. […] Coloro che erano maggiormente rispettati nel quartiere dove sono cresciuto, non erano i lavoratori, ma i dritti, i capo-banda e i preti. Fu questo che mi spinse a tentare di diventare un prete, che temo sia un mestiere ancora più difficile! Mean Streets fu un tentativo di rappresentare me e i miei amici sullo schermo, di mostrare come vivevamo, cos’era la vita a Little Italy. In un certo senso era un trattato antropologico o sociologico. Charlie si serve delle altre persone, ed è convinto di aiutarle; ma così facendo, egli non solo rovina loro, ma anche se stesso. Quando lotta con Johnny davanti alla porta, in strada, si comporta come se lo stesse facendo per gli altri, ma in realtà lo fa soltanto per il suo orgoglio, il primo peccato della Bibbia. La mia voce si sovrappone spesso a quella di Charlie per tutto il film; era un modo per cercare di trovare un accordo con me stesso, di redimermi. Non è difficile imporsi di andare a messa la domenica. Non è questa la redenzione, per me: redenzione è il modo in cui vivi, il modo in cui ti comporti con gli altri, sia nelle strade, che a casa, che in ufficio.
Martin Scorsese, Scorsese secondo Scorsese, a cura di Ian Christie e David Thompson, Ubulibri, Milano 2003
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The Party di Blake Edwards con Peter Sellers, Claudine Longet, Jean Carson, Marge Champion, Al Checco USA 1968 99′
Probabilmente il film più divertente realizzato dalla coppia Blake Edwards/Peter Sellers, sicuramente quello più iconico. Manifesto di comicità anarchica, film sessantottino per eccellenza in cui libertà espressiva, pacifismo e messa al bando di ogni ordine precostituito passano atraverso una girandola di esilaranti situazioni da cui è impossibile non essere travolti, Hollywood Party è un’opera delirante che procede per accumulo di gag visive e siparietti slapstick, trovando nella concatenazione delle trovate surreali una grande linfa vitale. L’ingenuità e la purezza propria di un bambino del protagonista sono rese magistralmente da Peter Sellers che, in una prova di attore di debordante generosità, offre una delle sue migliori interpretazioni di sempre, non facendo rimpiangere i colossi della comicità a cui si ispira (Buster Keaton e Jerry Lewis, passando per i fratelli Marx). Nonostante la sua carica eversiva appaia oggi smorzata, il film rimane la psichedelica testimonianza di un’epoca, filtrata da un’operazione sottilmente cinefila che recupera la tradizione comica delle origini. LongTake
Badlands di Terrence Malick con Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri, John Carter, Alan Vint USA 1973 95′
Malick prima di Malick. Per leggere il cinema più recente di questo regista, non semplicemente in un discorso formale ma in relazione a un percorso che lo ha portato alla definizione di una lingua personale, è necessario iniziare dal suo film d’esordio che lo vede anche nel ruolo di sceneggiatore e produttore. Badlands, che è il titolo originale e letteralmente indica una certa conformazione piuttosto aspra del territorio da cui prende nome anche un parco nazionale, è già un chiaro segnale dello spazio che l’ambiente ha rispetto ai personaggi. Prima che esso possa prendere il sopravvento, influenzandone scelte e comportamenti, come accade ad esempio ne I giorni del cielo, opera seconda di Malick, qui entra a far parte della narrazione in una posizione che potremmo chiamare di “correlativo soggettivo”. Perché nodo centrale di una storia che non raggiunge ancora quelle punte di rarefazione alla Tree of Life sono Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek). Lui venticinquenne “si atteggia” a James Dean ed è insoddisfatto della vita – fa i lavori più umili; lei, quindici anni, è un’adolescente matura che si innamora e si lascia trascinare via, impassibile di fronte all’uccisione del padre da parte del ragazzo. Una favola romantica, un dramma, una mitologia di un evento realmente accaduto (il caso della coppia Starkweather-Fugate)?
La rabbia giovane è uno degli esordi più sorprendenti proprio perché sovverte le convenzioni e si pone in un non-luogo dove il tempo sfugge alla Storia e ne lascia una eco appena percettibile in quel malessere che paradossalmente non appartiene solo a una generazione. Sì, c’è la figura leggendaria di Dean che viene rievocata neanche senza troppe velature, però non siamo più confinati nel recinto familiare de La valle dell’Eden o di Gioventù bruciata. È una gioventù, questa rappresentata da Malick, che si è già emancipata da padri severi – Holly non piange la morte a sangue freddo del genitore, né sembra scossa. L’indifferenza con cui Kit fa fuori chi prova a fermarli è allora figlia di un sentimento di spaesamento e alienazione nei confronti di un momento storico. Malick, volutamente, non dà le coordinate per orientarsi in questa perdita dell’innocenza, non tenta di ricomporre le parti del quadro, e si affida a un punto di vista interno che è quello della protagonista.
Normalmente la voce narrante nel cinema viene considerata un elemento aggiuntivo rispetto al potere evocativo delle immagini e spesso si tende a limitarla, se non a demonizzarla soprattutto laddove esista un riferimento di matrice letteraria – tradurre significa “trasfigurare”. Malick la riconduce a un carattere introspettivo, quasi come fosse una confidenza dei personaggi rivolta a un tentativo di messa a fuoco dei loro stati, piuttosto che assegnarle una funzione di tipo esplicativo. La riprova di questo approccio, che travalica quindi l’uso più consueto della voce narrante, sta nel fatto che alla fine le ragioni che muovono Kit a ribellarsi restano in qualche modo sospese: la stessa Holly parla di stato d’incoscienza, di disperazione e dopo l’ennesima sparatoria abbandonerà il ragazzo al suo destino.
Lo spettatore viene circoscritto in uno spazio che è delimitato dallo sguardo stesso dei protagonisti: è assente in Malick la volontà di spingersi oltre per estendere il raggio a una narrazione di campo e contro-campo, da una parte i ricercati e dall’altra la polizia che è sulle loro tracce. E questo sposta inevitabilmente l’attenzione dall’azione, qui intesa come fuga verso la libertà alla Bonnie e Clyde, alla reazione che Kit ha di fronte all’incursione di “elementi” che, pur appartenendo al loro mondo, ne sono estranei. L’unico momento straniante rispetto a una figurazione interiore, ma forse è anch’esso frutto in una prospettiva d’immaginazione di Holly, è la sequenza in bianco e nero che ci proietta all’esterno: le immagini vengono assemblate a mo’ di notiziario recuperando per un attimo quella dimensione di cronaca di un fatto d’attualità.
Per il resto del film danziamo in una realtà sognante abbracciati a King Cole in uno dei lenti più romanticamente assurdi – i corpi di Kit e Holly illuminati dai fari dell’automobile riflettono le loro ombre sullo sterrato dell’autostrada. La musica-guida di Carl Orff poi è un ritorno a un’età mitica, di purezza, “piena di cose che danno il piacere solo a guardarle”. È la natura, habitat per eccellenza dell’essere umano sin dalle origini: i protagonisti costruiscono una casetta sull’albero in una foresta attraversata da un fiume; hanno anche una gallina. Si spostano lungo ampie distese, ambienti primitivi inframmezzati giusto da qualche segno di civiltà. La loro condizione diviene parte stessa di quel paesaggio che Kit fissa al tramonto fino a sera fermo in posa come uno spaventapasseri: “Vivevamo nel più completo isolamento, un po’ qui un po’ la. Secondo Kit avrei dovuto dire solitudine perché si adatta più al mio stato d’animo”. Sentieri Selvaggi, Marco Bolsi
¿Qué he hecho yo para merecer esto? di Pedro Almodóvar con Carmen Maura, Verónica Forqué, Ángel De Andrés López, Gonzalo Suarez, Luis Hostalot Spagna 1984 99′
Quarantotto ore della vita di una eccentrica famiglia residente in uno dei grandi palazzoni della periferia di Madrid costruiti dal franchismo durante il boom economico, tra tragicomiche avventure domestiche, incomprensioni familiari e rassegnazione a una triste esistenza.
Che ho fatto io per meritare questo? segna una svolta nell’itinerario cinematografico di Pedro Almodóvar che, con questa pellicola, ha saputo dare vigorosa organicità alle istanze proposte negli acerbi film precedenti, in cui derive grottesche e ostentata trasgressione faticavano ancora a rispecchiarsi in una precisa idea di cinema. Il filone a cui si ispira il talentuoso cineasta iberico è il “neorealismo spagnolo” delle amare commedie a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, incentrate sulla vita quotidiana del proletariato appena urbanizzato. “Film da camera”, nel quale i personaggi si muovono come in un acquario sotto lo sguardo implacabile del demiurgo-regista. Niente e nessuno viene risparmiato in questa rappresentazione irridente e nichilista della società ispanica in cui a prevalere è la cura per i dettagli visivi e sonori del microcosmo proletario in cui la vicenda si dipana. Personaggi sopra le righe, situazioni paradossali, commistione di generi che tende ad esasperare i sentimenti: seppur in una forma ancora rozza, c’è tutto il meglio di Pedrito. Strepitosa Carmen Maura, capace di tenere le fila di un delirante (e spassoso) quadro familiare. LongTake
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Raining Stones di Ken Loach con Bruce Jones, Julie Brown, Gemma Phoenix, Ricky Tomlinson, Tom Hickey Gran Bretagna 1993 90′
“Quando piove sui poveri, piovono pietre…” Proverbio Inglese
Scene di sottoproletariato urbano a Manchester. Il cinema con il pugno alzato di Ken Loach sempre dalla parte dei lavoratori, dei fratelli/figli unici malpagati, frustrati e sottomessi. Il disoccupato Bob (Bruce Jones) cerca disperatamente le sterline necessarie per il vestito della comunione della figlia Coleen (Gemma Phoenix): pur aiutato dallo sbandato Tommy (Ricky Tomlinson) e dalla devota moglie Anne (Julie Brown) finirà nella mani dello spietato strozzino Tansey (Jonathan James).
In Piovono pietre c’è un compendio di tutto il cinema di Ken Loach con inserti umoristici che alleggeriscono una narrazione ad alta tensione drammatica. La religione è l’oppio dei popoli e attorno la società neo-liberista post thatcheriana gira in direzione ostinata e contraria, lasciando lapidare i più poveri. Sia il politico laburista che quello conservatore sembrano distanti dai problemi di sopravvivenza della gente. L’unica figura capace di modificare la realtà è quella del prete Barry (Tom Hickey) che compie un’ azione fuori dall’ordinario e in senso opposto ai dettami religiosi. Per Bob, che si riduce a rubare un montone scambiandolo per una pecora, a sturare le fogne coprendosi di merda, a rubare zolle di terra dal prato dei conservatori, a fare il buttafuori in una discoteca, sembra non arrivare mai il segno del riscatto. Gli rubano il furgone, lo massacrano di botte, gli minacciano la famiglia in una scena quasi tarantiniana.
Ken Loach fa schierare lo spettatore dalla parte di Bob dipingendogli attorno un quadretto folcloristico: l’ amico Tommy è un fallito che si diverte a raccontare barzellette (quella dell’invalido a Lourdes è quasi una metafora) ed è mantenuto dalla figlia spacciatrice; la cattolica Anne si vergogna di prendere la pillola e non riesce a trovare un impiego stabile. La fotografia grigia e sfocata rispecchia la solitudine degli ambienti mentre la musica di Stewart Copeland accompagna la via crucis del sottoproletariato con un crescendo di percussioni. Bob si incaponisce a volere trovare i soldi per la figlia perché anche lui è entrato nel gioco capitalistico del dovere mostrare ciò che non si possiede, con un orgoglio piccolo borghese che è una forma di autodistruzione di classe. Autodistruzione che si attua silenziosamente attraverso l’alcol e la droga gentilmente forniti dal sistema. L’unica forma di resistenza è la solidarietà tra poveri, il fare muro contro regole e doveri che rendono perennemente schiavi.
Ken Loach guarda al Neorealismo italiano ma lo arricchisce delle influenze della New Wave Britannica e del Kitchen Sink Realism di inizio anni ’60. Gli attori sono semiprofessionisti, le inflessioni dialettali spesso incomprensibili, lo sfondo urbano claustrofobico. La scrittura da parte di Jim Allen crea un effetto valanga che porta alla svolta e al colpo di scena nel montaggio parallelo tra il rito della comunione e l’arrivo della polizia a casa di Bob. Scene indimenticabili sono quella iniziale con i maldestri tentativi di Bob e Tommy di piazzare la carne di montone, le imbarazzanti lezioni di catechismo alla piccola Coleen e il dialogo finale tra Bob e il prete Barry sul concetto di giustizia.
Premio della giuria al Festival di Cannes, Piovono pietre è una rappresentazione anti retorica del calvario del sottoproletariato in un società ingiusta che emargina i più deboli. Ken Loach lascia immaginare un futuro ancora possibile per questo quarto stato malpagato, sfruttato, calpestato e odiato. Mio fratello Bob è figlio unico perché va avanti a testa bassa nonostante piovano pietre. E ti amo Bob.