I lunedì al sole – 26.05.06
Los lunes al sol Spagna-Francia-Italia 2002 113’
di: Fernando León de Aranoa
con: Javier Bardem, Luis Tosar, José Angel Egido, Nieve De Medina, Enrique Villén, Celso Bugallo, Joaquin Climent, Aida Folch
Lunedì, maledetto lunedì. Parente di Ken Loach, del marsigliese Robert Guèdiguian, del Duvivier della Bella brigata e del Cantet di A tempo pieno, lo spagnolo premiatissimo Fernando Leòn de Aranoa, in apparenza anti Almòdovar, fa un cinema militante in cui predilige il fattore umano a quello sindacale. In I lunedì al sole, quattro cassintegrati dei cantieri navali della Galizia di Aznar, frustrati oggi più di ieri e meno di domani, reagiscono cercando altri lavori, aprendo un bar o bevendosi un bar. Si ritrova l’alleanza complice maschile: al lunedì invece di lavorare si sta leoni al sole. E c’è chi deve pure pagare 8000 pesetas per aver rotto un lampione. Bellissimo film, che si basa non su una ma su migliaia di storie vere, parla sottovoce, racconta come sono intricati e spigolosi i rapporti umani, com’è difficile perder la dignità: una commedia sociale di gran verità al di là dei manifesti ideologici. Capace di spirito – la partita di calcio con una sola porta, «ho visto il compagno Dio, dice che non esiste» – e di mixare Modugno, Tom Waits e Trenet nella colonna sonora, il film ha in Javier Bardem, e non solo in lui, un protagonista di eccezionale comunicazione, ricco interiormente di contraddizioni e violenza, bravo a raccontare la fiaba della cicala e la formica. Sono gli amatissimi non eroi di una foto di gruppo con cui il regista fa scattare, in sintonia muta, un effetto a catena di simpatia, liberazione, solidarietà: beni primari, eccezioni affettive nella borsa dei cine-consumi.
Corriere della Sera (29/3/2003), Maurizio Porro
Lunedì mattina – 12.05.06
Lundi matin Francia-Italia 2002 122’
di: Otar Iosseliani
con: Jacques Bidou, Anne Kravz-Tarnavsky, Dato Tarielashvili-Iosseliani, Narda Blanchet, Radslav Kinski, Adrien Pachod, Otar Iosseliani
E’ un artista, un ricercatore del gusto perduto della vita, l’operaio Vincent, pendolare di industria chimica ma aspirante vagabondo, interpretato dal documentarista Bidou, che gli dà la cadenzata noncuranza dei semplici. Con ironia e senso della vacuità, la giornata di Vincent incomincia dalla scompigliata casetta di paese dove i tempi della fabbrica scandiscono anche quelli dei campi. Accanito fumatore, vive in un mondo dove fumare ormai è come delinquere. Appassionato acquarellista, deve rinunciare per tenere in piedi una casa che va a pezzi, dove tuttavia convivono l’estremo inizio del secolo (una nonnina che usa ancora il telegrafo) e l’estrema sopravvivenza nel nuovo secolo (i figli elettro-amatori che aggiustano il telegrafo). La visita al padre morente, un grottesco vegliardo che fa il tirassegno in casa, lo sprona a partire. A Venezia risalta il gioco peripatetico del film: si unisce a un’allegra combriccola, ubriaco e felice, poi s’imbarca per l’Egitto e torna a casa per un nuovo “lunedì mattina”, mentre il figlio più grande vola sulla campagna con un parapendio. Cinema del secolo, in cui Iosseliani riprende nei dettagli Tati e Gremillon. Da vedere, più che da raccontare.
Il Giorno (28/2/2002), Silvio Danese
Paul, Mick e gli altri – 28.04.06
The Navigators GB-Germania-Spagna 2001 92’
di: Ken Loach
con: Joe Duttine, Steve Huison, Tom Craig, Dean Andrews, Venn Tracey, Sean Glenn
Sheffield, Yorkshire del Sud, 1995. Un vecchio deposito delle ferrovie britanniche è privatizzato. Una squadra di navigators – operai addetti alla manutenzione – che lavorano insieme da anni è suddivisa tra varie società: cassa integrazione, flessibilità nei licenziamenti, lavoro precario, ferie non retribuite, incentivi salariali di produttività. La generosità, la coerenza, l’insistenza sulla tematica della classe lavoratrice di K. Loach sono ripetitive soltanto in apparenza. Come mostra anche il tragico epilogo, qui il tono è più dolente e amaro. Grazie alla rinuncia agli effetti più emotivamente coinvolgenti, lo spettatore è lasciato libero di trarre conclusioni e giudizi. Al sobrio servizio di una sceneggiatura competente e precisa (scritta da Rob Dawber, ex “navigatore”, morto di cancro prima della fine delle riprese), Loach racconta la fase conclusiva dello sfaldamento sociale operato dai governi conservatori e consolidato da quello del laburista Tony Blair.
Il Morandini 2005
Mi piace lavorare (Mobbing) – 14.04.06
Italia 2004 83’
di: Francesca Comencini
con: Nicoletta Braschi, Camille Dugay Comencini
I luoghi e i rapporti di lavoro sono scenografie, relazioni, gesti e declinazioni del potere dai quali il cinema italiano prende le distanze e per i quali, non trova, e spesso non cerca, le focali, le parole, i tempi e i tagli giusti. ll problema formale, stilistico, culturale connesso a questa frequente rimozione produttiva riguarda la questione del realismo e della realtà. Non si tratta di sostenere una vague di neorealismo postmoderno né di sollecitare una revisione tecnico-teorica dell’impressione di realtà al cinema, si tratta di non ignorare il reale come campo d’azione, di dinamiche pragmatiche e psicologiche, di riserva inesauribile di drammaturgie sociali. Francesca Comencini e i suoi collaboratori sono bravissimi nel mettere in scena una storia di mobbing che è un “montaggio” di tante vicende vissute e un ponteggio, avveduto e partecipe, tra documentario e finzione: attori e non attori, regia e pedinamento di azioni, copione ed esperienze personali rielaborate per la macchina da presa. L’editing della trama (Anna, donna sola con una figlia, vittima dell’emarginazione dell’organizzazione delle risorse umane dell’azienda in cui lavora) e la circolarità tra cinema e fuoricampo hanno un unico limpido punto di vista. ll lavoro continua a nobilitare le persone e a renderle meno fragili.
Film TV (17/2/2004), Enrico Magrelli
Risorse umane – 31.03.06
Resources humaines Francia 1999 107’
di: Leonard Cantet
con: Jalil Lespert, Jean-Claude Vallod, Chantal Barré, Veronique de Pandelaëre, Michel Begnez, Lucien Longueville
Frank, laureato in economia aziendale, torna al paese natio per uno stage estivo nella fabbrica dove il padre operaio lavora da trent’anni. È convinto di poter conciliare gli interessi di capitale e lavoro con una gestione intelligente ed equilibrata della legge sulle 35 ore settimanali. Quando scopre che l’hanno usato per far passare una ristrutturazione della fabbrica e la conseguente riduzione del personale, si schiera con i lavoratori e i sindacati che entrano in sciopero. Raro esempio di cinema sul mondo operaio che entra dentro la fabbrica industriale: “si focalizza in un luogo che definisce, nomina il nostro tempo…” (Pietro Ingrao). I suoi limiti di verismo dimostrativo, didattico, stilisticamente “normale” sono superati nel forte, coinvolgente finale con l’aspro rimprovero del figlio al padre – il personaggio espressivamente più riuscito – e nella sconsolata domanda conclusiva all’amico: “E qual è il tuo posto?”. Esordio del documentarista L. Cantet (1961), pluripremiato: 2 Césars (migliore opera prima, attore), San Sebastian, premio europeo Fassbinder, Premio Cipputi al Festival di Torino.
Il Morandini 2005
He got game – 17.03.06
He Got Game USA 1998 134’
di: Spike Lee
con: Denzel Washington, Ray Allen, Milla Jovovich, Rosario Dawson, Hill Harper, Zelda Harris, Ned Beatty, John Turturro
«He Got Game» è un’espressione idiomatica che, riferita a un campione di basket, significa più o meno «sa giocare, ha talento». É quel che tutti pensano di Jesus Shuttlesworth, ragazzino di New York, la miglior promessa dei licei d’America. (…) Di film sui neri ne abbiamo visti tanti, di Spike Lee (da Fa’ la cosa giusta a Jungle Fever fino a Clockers) e di altri registi. Ma questo é il primo in cui il basket esce dallo sfondo, rivelandosi molto più di uno sport: ovvero, una filosofia di vita, un modello culturale, uno strumento di riscatto sociale. Spike Lee lo usa per raccontare un tipico dramma edipico, imperniato sul difficile rapporto padre-figlio che è un altro tema tipico della cultura afroamericana. Il film ha difetti di sceneggiatura (è lungo e ha qualche personaggio di troppo) ma è fondamentalmente riuscito per la bellezza della regia e per la bravura dei due protagonisti. Ray Allen (Jesus) è un vero campione, Denzel Washington (Jake) è un bravissimo attore: la cosa incredibile è che il primo recita benissimo e il secondo regge il paragone nella scena in cui Jake sfida Jesus a chi segnerà per primo 11 canestri. Compaiono anche, nei panni di se stessi, Bill Walton, Reggie Miller, Scottie Pippen, Charles Barkley, Shaq O’Neal e il sommo dei sommi, Michael Jordan: per i fans Nba, imperdibile.
l’Unità (29/10/1998), Alberto Crespi