Frammenti: Patrice Leconte
VENERDI’ 9 FEBBRAIO 2024 ore 20.45
sabato 27 Gennaio 2024, 17:23
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L’UOMO DEL TRENO
L’homme du train
di Patrice Leconte
con Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Jean-François Stévenin, Charlie Nelson, Pascal Parmentier
Francia   2002   90′

Milan (Johnny Hallyday) arriva col treno e con un mal di testa che, rimasto a corto di aspirine proprio mentre tutti i negozi tirano giù le serrande, lo conduce in una farmacia dove anche Manesquier (l’anziano pensionato interpretato da Jean Rochefort) sta comprando delle medicine. E per errore del farmacista, che gli vende delle compresse effervescenti, è quasi costretto ad accettare l’invito dell’altro che gli offre un bicchiere d’acqua nella sua casa poco distante.
Sembra una casualità, come quando, poco dopo, Milan trova l’albergo dove avrebbe dovuto alloggiare chiuso. L’unica soluzione, quindi, è tornare dall’anziano signore senza chiavi di casa e chiedergli ospitalità fino al sabato.
Se uno è solitario per scelta e di poche parole, l’altro soffre la solitudine e ha bisogno di parole e spiegazioni.
La convivenza per due uomini abituati solo ai propri pensieri è tutt’altro che scontata e non può che sollevare ognuno dei due dalle abitudini e convinzioni di una vita intera.

Leconte gestisce le attese e i lunghi tempi narrativi con un ritmo perfetto, il tutto scandito da un appuntamento di entrambi i protagonisti, che entrambi non possono sfuggire e che ad entrambi cambierà la vita, nel bene o nel male.
La freddezza apparente di Milan è in contrasto con la calma piatta ma accogliente della casa di Manesquier, e i toni blu della fotografia ce lo ricordano ogni volta che Milan esce dalla villa e progetta, insieme a vecchi colleghi, una rapina nella banca del paese e che inghiotte lo stesso Manesquier quando insieme diventano complici fuori dalla culla domestica e quando entrambi si avviano verso una crescita interiore reciproca.
Milan fa provare l’ebbrezza di sparare a Manesquier e, di rimando, lui gli insegna a tenere sempre uno spazzolino di scorta o a portare pantofole in casa. La casa ricca di tappeti, quadri, divani e fotografie di un’infanzia felice che poi, a detta dello stesso Manesquier, s’è trasformata in una vita cristallizzata, in cui lui ha mantenuto la stessa posa per anni. La sua passione per la poesia, la musica e la sua professione (Manesquier era professore di francese), lo rendono un uomo sensibile, senza pregiudizi, capace di accogliere e chiedere aiuto. Manesquier mostra i suoi bisogni, li maschera rendendoli ancor più evidenti nella sua goffaggine, e colpiscono persino un duro come Milan.


La regia originale di Leconte sostiene e arricchisce la sceneggiatura di Claude Klotz, curatissima e piena di spunti, che riapre di tanto in tanto durante la narrazione.
Leconte alterna momenti più lenti, e sempre essenziali, in cui i brillanti dialoghi trovano il respiro che meritano, considerando che quasi ogni battuta contiene temi e concetti su cui si potrebbe riflettere a lungo; gli interni sono gestiti proprio con questa consapevolezza, le conversazioni fra Milan e Manesquier sono inserite in un contesto di tranquillità, tra luci soffuse e penombre nelle atmosfere placide e pacate della casa. I toni intimi risaltano, evidenziati anche dall’attenzione per i particolari e una macchina da presa quasi sempre stretta sui protagonisti. Il mondo fuori è più incostante, le inquadrature rimangono scarne e i piani si allargano mostrando ambienti se non ostili quantomeno estranei, uno sfondo sul fuoco sempre presente sullo sviluppo del rapporto tra i personaggi.
La fotografia segue la stessa logica e oscilla tra interni neutri e propri di Manesquier e i toni freddi, blu, di Milan. Entrambi assumono le caratteristiche dell’altro quando l’altro “conduce” nella propria esperienza, i colori di Milan diventano quelli di Manesquier se è il primo a guidare e viceversa.
Le interpretazioni sono il giusto compenso per una grande storia, sia Rochefort che Hallyday riescono a centrare i caratteri aggiungendogli un fascino fondamentale con una recitazione matura.
Se il tema è quanto si può mettere in gioco se stessi e potersi fidare di qualcuno, allora sia Milan (che non ha mai fallito) che Manesquier (uno che è abituato alle sconfitte), raggiungono il loro vero obiettivo nonostante gli eventi.
Uno scambio reale che viaggia e, fino alla fine, si incontra per poi passare oltre, in direzioni opposte accomunate da quell’attimo condiviso tanto intenso e prezioso.
Ondacinema, Giulia Novelli

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VENERDI’ 9 FEBBRAIO 2024 ore 20.45


Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno VENERDI’ 26 GENNAIO 2024 ore 20.45
lunedì 22 Gennaio 2024, 11:54
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LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI
Loong Boonmee raleuk chat
di Apichatpong Weerasethakul
con Thanapat Saisaymar,Jenjira Pongpas, Sakda Kaewbuadee, Natthakarn Aphaiwonk, Geerasak Kulhong
Tailandia.  2010  114′

Lo zio Boonmee (Thanapat Saisaymar), un uomo di circa sessant’anni gravemente malato, decide di trascorrere i suoi ultimi giorni di vita immerso nella natura della sua casa di campagna. Ad accudirlo ci sono sua cognata Jen (Jenjira Pongpas – Syndromes and a Century) e suo nipote Tong (Sakda Kaewbuadee – Syndromes and a Century,Tropical Malady, Deep in the Jungle, The state of the world) oltre all’aiuto di un giovane infermiere. Ma ben presto il paesaggio bucolico sarà teatro di inattese apparizioni soprannaturali, come i fantasmi della sua vecchia moglie e di suo figlio entrambi deceduti molti anni prima. Il figlio di Boonmee è ora diventato una sorta di spirito della foresta, e si presenta con le sembianze di una scimmia dagli occhi spiritati. A loro si aggiungono il ricordo di un misterioso pesce gatto e di un bue che insegue la sua libertà. Boonmee deciderà di iniziare il suo ultimo viaggio attraverso la foresta entrando dentro una antica caverna, forse il luogo della sua prima nascita, prima di accettare il suo destino.
Liberamente ispirato al libro del monaco buddhista Phra Sripariyattiweti, che parla appunto di un uomo che viene chiamato Boonmee e che ha la facoltà di ricordare le sue vite precedenti, il film di Apichatpong Weerasethakul (Mysterious object at Noon, Blissfully Yours, Tropical Malady , Syndromes and a Century) si inserisce idealmente nel più ampio progetto multimediale che il cineasta porta avanti: il Primitive project, di cui fanno parte anche installazioni, cortometraggi e pubblicazioni. Tale progetto intende scavare nel passato e nel presente (sia storico che spirituale) di un piccolo territorio a Nord della Thailandia chiamato Nabua, reinventandone la configurazione attraverso l’arte. Il film ha vinto la Palma d’oro al 63° Festival di Cannes convincendo una giuria presieduta da Tim Burton.  Sentieri Selvaggi, P.M.

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Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 19 GENNAIO 2024 ore 20.45
martedì 16 Gennaio 2024, 13:35
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DOGTOOTH
Kynodontas
di Yorgos Lanthimos
con Angeliki Papoulia, Mary Tsoni, Hristos Passalis, Anna Kalaitzidou, Alexander Voulgaris, Christos Stergioglou
Grecia 2009 94′

Da qualche parte sotto l’Acropoli e dietro il muro alto di una villa, vive una famiglia ‘autarchica’. Il padre, in comunione con una moglie sottomessa, ha deciso di crescere i propri figli al riparo dal mondo. Soltanto lui ha il diritto di superare i confini del giardino e il dovere di mantenere la famiglia. Tutte le menzogne passano per lui, anche la collera, fino lo scacco. Figlie e figlio restano a casa a imparare una vita che non ha nessuna corrispondenza col reale. A covare il nido una madre che li alleva nel culto della performance, evocando, per trattenerli dentro, una minaccia esterna. L’educazione passa per l’apprendimento di parole che hanno perso il loro referente, quella sessuale per un’impiegata della fabbrica dove il padre è dirigente. Assunta per soddisfare i piaceri del figlio maschio, Christina è l’enigmatico ospite che porterà scompiglio nella ‘tradizione’.

Come risvegliare la coscienza di un Paese addormentato? Con una seduta ipnotica di ipnosi. Alla seconda prova, Yorgos Lanthimos firma un’allegoria della manipolazione mentale, meglio, dell’educazione rigida delle dittature, dei totalitarismi, del patriarcato, provando a smontarli e a mostrarne il meccanismo.

Fortemente condizionata, la famiglia (ovvero il popolo) si lascia sottomettere non conoscendo altra realtà, nessuna sfumatura tra bene e male, moralità e immoralità. Il quotidiano imposto è il solo quotidiano, i protagonisti non ne escono mai, non sono mai pronti. In quella bolla delirante, uno zombie diventa un fiore giallo, un gatto diventa una creatura malefica e assassina, all’età adulta poi si accede perdendo il canino (permanente). Lo ha detto papà.

L’universo diventa assurdo per chi non è mai andato oltre il perimetro del suo giardino. E dall’assurdità di certe situazioni, Lanthimos deriva un humour nero. Le risate scaturiscono sovente da un malessere davanti all’immaginazione della manipolazione, alla sua perversità. Come nei drammi di Ionesco o nei film di Haneke, in Dogtooth l’uomo diventa animale fra ellissi e tempi morti, silenzi e dialoghi crudi. Ma Lanthimos rilancia per donare forza al suo proposito.

Nudità, perversione, trasgressione, asservimento, balordaggine, l’autore greco non contempla il fuori campo. Mostrare, mostrare tutto e preferibilmente in piano fisso e in primo piano per aumentare fastidio e disagio. In quei piani il film perde forza di colpo, l’eccessivo diventa insignificante, quasi vano. È piuttosto nei controcampi ‘fuori’, quelli che fanno respirare il film e lo spettatore, che Lanthimos trova la forza abbacinante della denuncia.

Dietro i muri, genitori senza nome crescono figli senza nome, ricreano un mondo dove forgiano e suggestionano una prole innocente. Un mondo carcerario. Una prigione tanto più crudele perché ficcata sotto il sole insolente della Grecia, di cui qualche aria musicale ascoltata in auto richiama la bellezza, la libertà e il ribollio di miti indissociabili da questo Paese.

In quel castello di purezza xenofoba, dove le parole cambiano di senso, la riproduzione è un mistero divino, gli aerei cadono ‘come giocattoli’ e il nonno ha la voce (e il talento) di Frank Sinatra, Lanthimos svolge una cronaca di fascismo ordinario per dire qualche cosa della sua esasperazione, del suo Paese e della famiglia come spazio totalitario, mondo a sé ossessionato dalle proprie leggi. Eludendo le trappole del suo racconto e il simbolismo eccessivo, si muove sul terreno di Pasolini, mettendo in crisi sistema e protocolli con un messaggero dell’altrove. Naturalmente, l’incontro ravvicinato con la realtà non salverà nessuno. Christina, l’unico personaggio ad avere un nome, a parte quel Bruce rubato al cinema dalla figlia maggiore, è la manifestazione improvvisa al centro del nulla umano. È la condizione, arbitrariamente stabilita, di un teorema che dimostra la forza scandalosa del sacro e collassa la famiglia, prima teatro della crudeltà umana.
Marzia Gandolfi

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Jacques Tourneur, la paura dell’ignoto L’ UOMO LEOPARDO VENERDI’ 12 GENNAIO 2024 ore 20.45
lunedì 08 Gennaio 2024, 19:33
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The Leopard Man
di Jacques Tourneur
con Dennis O’Keefe, Margo, James Bell
USA 1943 66′

Una cittadina del Nuovo Messico è sconvolta da una serie di brutali omicidi: si pensa che il colpevole sia un leopardo fuggito durante un’esibizione. La verità, però, sarà decisamente più sconvolgente. Tratto dal racconto L’alibi nero di Cornell Woolrich, L’uomo leopardo è un film che conferma il grande talento visivo di Jacques Tourneur. Il regista francese torna a lavorare per il produttore Val Lewton, dopo Il bacio della pantera(1942) e Ho camminato con uno zombi (1943), e firma quello che potrebbe essere definito come il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia orrorifica. Come per i due lavori precedenti, Tourneur punta su uno stile minimale, fa parlare più le immagini delle parole (maestosa fotografia di Robert de Grasse) e punta su un’atmosfera dai tratti perturbanti capace di inquietare ancora oggi. Suspense, mistero, confezione impeccabile: il risultato non può che appassionare nella sua semplicità, spaventare e far riflettere su quanto siano profondi gli abissi che si annidano all’interno della mente umana. Una perla da riscoprire.
Longtake

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cinemapiù 42 gennaio-febbraio 2024
lunedì 08 Gennaio 2024, 19:32
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