LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO
A Vida Invisível
di Karim Aïnouz
con Carol Duarte, Júlia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Santos, Flávia Gusmão
Brasile 2019 139′
In riva all’oceano due ragazze siedono una accanto all’altra senza guardarsi. Poi, in una foresta tropicale lussureggiante, attraversata da cascate di acqua cristallina, si perdono, si inseguono, si chiamano a gran voce, ma non riescono a trovarsi. Le prime sequenze del film La vita invisibile di Euridice Gusmao del regista brasiliano Karim Ainouz sono profetiche e si fanno metafora dell’appassionante storia: quella di due sorelle legate a doppio filo, e ciononostante separate dal destino (e soprattutto dalla grettezza degli uomini) in una Rio de Janeiro negli anni ’50 dove le donne sono soltanto l’ombra di padri e mariti. Non potrebbero essere più diverse. Euridice, splendido sorriso, corpo slanciato anche se dalle movenze un po’ goffe e impacciate, ha talento per il pianoforte e sogna soltanto di essere ammessa al Conservatorio di Vienna. Guida, maggiore di due anni, è meno bella, bassina, ma sprizza vitalità e sensualità, morde il freno, insegue a tutti i costi il grande amore e vuole staccarsi dal contesto famigliare conservatore e bigotto. La sua scelta di fuggire col marinaio greco Iorgos, per poi tornare in patria incinta e abbandonata, fa da trigger al dramma: il papà non la riconosce più come figlia, la caccia di casa e le fa credere che l’amatissima sorella si sia trasferita in Europa. Vivranno lontane e infelici: la prima rinuncerà alla musica per diventare moglie di un uomo ricco ma senza qualità, nonché madre amorevole, adeguandosi a quanto la società vuole per lei; l’altra si dedicherà al figlioletto “bastardo” e troverà la protezione dell’ex prostituta Filomena nei miseri bassifondi della città. Sino al ricongiungimento tardivo delle loro anime, se non nella realtà. Tratto dal romanzo di Martha Batalha, caso letterario in patria paragonabile al nostro L’amica geniale, il lavoro vincitore della sezione “Un Certain Regard” allo scorso Cannes, nelle sale da giovedì, ripercorre le strade del melodramma alla Douglas Kirk, attualizzandone però lo stile grazie a una capacità introspettiva potente, alla caratterizzazione dei personaggi, all’estetica raffinata, satura di colori e suoni. Se Ainouz non ha paura di spingere sul pedale della commozione e del sentimentalismo, la scelta di ricostruire la vicenda attraverso le lettere che Guida scrive ad Euridice, intercettate dal padre e mai recapitate alla destinataria, gli consente di mantenere la giusta distanza e di non cadere mai negli zuccherosi toni da telenovela. E in più la trama mélo è lo spunto per una critica sociale: dell’epoca, come si deduce dalla violenza delle scene di sesso matrimoniale, allora molto diffusa, e anche del presente del Paese con riferimenti non espliciti, ma intuibili, a Bolsonaro, che ha riaffermato i valori di una cultura tradizionale e maschilista. Due ore e venti che scorrono veloci e coinvolgenti, facendo scattare l’identificazione con le due giovani, i lori dolori, le loro continue frustrazioni, la mai perduta speranza di riincontrarsi. Qui tutto risulta naturale, spontaneo, sincero, soprattutto in virtù delle credibili interpretazioni di Carol Duarte-Euridice e Julia Stockler-Guida. E al cameo dell’attrice ormai novantenne Fernanda Montenegro (l’insegnante di Central do Brasil).
Paola Zonca, La Repubblica
DOMENICA, MALEDETTA DOMENICA
Sunday, Bloody Sunday
di John Schlesinger
con Peter Finch, Glenda Jackson, Murray Head, Bessie Love, Peggy Ashcroft
Gran Bretagna 1971 110′
Esisteva ancora la Twa. C’erano ancora i portasigarette e si fumava alla grande. Non c’erano i telefonini, ma in compenso funzionava un efficientissimo servizio di segreteria telefonica (nel caso in questione, con tanto di telefonista che sferruzza e spettegola durante il lavoro). Quegli anni – con la confusione sentimentale e sessuale, la crisi di cui si sente sempre parlare e che manda a casa senza lavoro i dirigenti cinquantenni, un misto di conformismo e di avventura – hanno qualcosa che parla ai nostri anni. Ma sono in realtà gli ultimi della swingïng London, raccontati in un film del 1971, Domenica maledetta domenica, piccolo grande capolavoro britannico di John Schlesinger che torna ora pubblicato da Teodora (eh sì, ancora loro).
Difficile oggi, all’epoca del gay pride e di esibizione delle proprie preferenze sessuali, immaginare lo shock, lo stupore, l’ammirazione liberatoria suscitati allora dal triangolo amoroso che il film ci racconta, e che incarna lo Zeitgeist sentimentale iu allora: Glenda Jackson, nei panni di una giovane divorziata, scontenta del suo lavoro e del suo status di borghese; Peter Finch è il medico omosessuale che le amiche vorrebbero vedere accoppiato con qualche brava ragazza ebrea come lui; Murray Head è il creatore di strane sculture, giovane, carinissimo e lungocrinito, che se la fa, prima senza che lo sappiano, poi con loro consapevoli, con tutti e due. Tra gelosie, certo, lacrime, furori e senso di privazione. La liberazione sessuale non annulla il dolore.
Scritto da Penelope Gilliatt (che di giovani arrabbiati se ne intende, visto che è stata la moglie di John Osborne), girato con mirabile senso dei luoghi e del tempo, il film di Schlesinger ci parla, ora come allora, della solitudine e delle maledette domeniche dei solitari. Ed è uno dei film che Pauline Kael elencava (e non si può darle torto) tra i frutti di una stagione magica del cinema, con II conformista, I compari, L’ultimo spettacolo, Il violinista sul tetto, Soffio al cuore, Il giardino dei Finzi-Contini, Cabaret, Il padrino. Tutti arrivati sugli schermi americani fra il 1971 e il 1972.
Irene Bignardi, Il Venerdì di Repubblica