Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo
VENERDI’ 29 MARZO 2024 ore 20.45
sabato 23 Marzo 2024, 12:54
Filed under: cinemapiù 43,Video

LA FAVORITA
The Favourite
di Yorgos Lanthimos
con Emma Stone, Olivia Colman, Rachel Weisz, Nicholas Hoult, Joe Alwyn, Mark Gatiss
Iralnda/Gran Bretagna/USA   2018  120′

La grande costante del suo cinema, diciamo almeno da Dogtooth in poi, Lanthimos l’aveva esplicitata attraverso Martin, il diabolico ragazzo de Il sacrificio del cervo sacro (in una scena peraltro brillantemente analizzata da Alessandro Baratti nella recensione del film): «Do you understand? It’s metaphorical. My example, it’s a metaphor. I mean, it’s symbolic». Che si tratti di una casa-prigione entro la quale costruire una diversa realtà, di un’infermiera che fornisce assistenza a coloro che hanno appena perso una persona cara sostituendosi ad essa e interpretandone il ruolo, di una distopia dove i single vengono rinchiusi in un hotel prima di trasformarsi in animali o ancora di una divinità che si vendica distruggendo una famiglia borghese, la dimensione metaforico-allegorica della narrazione messa in scena dal regista greco è sempre stata un elemento evidente e centrale, quando non addirittura ingombrante (è il caso, ad esempio, di The Lobster), nella sua filmografia. La concezione del racconto come grande metafora, come film-simbolo in cui ogni elemento rimanda a/riflette su qualcosa d’altro, porta però con sé delle inevitabili conseguenze, sulle quali i detrattori più agguerriti di Lanthimos (chi scrive non è tra questi) fanno costantemente leva. Personaggi che non diventano mai persone, burattini senza sentimenti che non fanno nulla per nascondere il loro essere manovrati dall’alto, e per di più osservati con uno sguardo apparentemente gelido e invece cinico, sadico e compiaciuto, attento a mettere in risalto le perverse tragedie e il dolore che li colpisce. Ci viene in aiuto ancora Il sacrificio del cervo sacro (ad oggi forse il suo film più compiuto, assieme a Dogtooth): quelle di un chirurgo che viviseziona gli spazi e le sofferenze altrui in modo asettico e glaciale e di una figura divina profondamente sadica che tiene saldamente in mano le regole del mondo in cui si trova sono ancora due figure chiave per comprendere il cinema di Lanthimos. Metaforicamente, ça va sans dire.

Ricordare nuovamente e a grandi linee qual è stato il cinema del Nostro fino a La favorita, di fatto un inaspettato (ma non radicale) momento di svolta nella sua filmografia, è sicuramente utile a mettere in luce gli aspetti di rottura e quelli di continuità del suo ultimo lavoro, entrambi, come vedremo, profondi portatori di senso. Nei crudeli giochi di potere al femminile che animano il nuovo film di Lanthimos infatti, la dimensione allegorica del racconto è certamente presente, ma non finisce mai per sottrarre energia a quel sincero e divertito gusto per la narrazione che finora era rimasto piuttosto estraneo al cineasta greco. Il merito di tutto questo, la variante che rende La favorita una parentesi atipica all’interno di un’idea di cinema a forte rischio stagnazione, è presto detto: trattasi infatti del primo film in cui né Lanthimos né il suo fedele compare di scrittura Efthymis Filippou firmano la sceneggiatura (qui di Deborah Davis e Tony McNamara, quest’ultimo impegnato principalmente sul fronte seriale). Lo scarto, nella vitalità che anima personaggi finalmente liberi dai fili del burattinaio e nella calda carnalità che emerge naturalmente dai corpi delle sue attrici (si metta in relazione una qualsiasi inquadratura di Emma Stone con la carne gelida e morta della Nicole Kidman de Il sacrificio del cervo sacro), è evidente. Così come è evidente, d’altra parte, quanto quello di Lanthimos non sia affatto un film che aderisce alle svogliate logiche del lavoro su commissione: il suo mondo (il suo sguardo) c’è tutto, solo declinato in forme differenti e legate ad una dimensione prettamente visiva, le cui peculiarità, se possibile, vengono perfino accentuate. Gli spazi (bellissimi e mostruosi) pesantemente deformati dal grandangolo e i personaggi inquadrati, beffardamente, sempre dal basso, come a voler mettere in risalto una regalità e un’imponenza di facciata che stride con la miseria morale delle loro azioni, sono solo gli elementi più evidenti e significativi. Sicuramente i più stranianti, soprattutto in un mondo, quello del ‘700, che si vorrebbe dominato dalla ragione e che qui invece, tra corse delle oche, giochi con le arance e spietate quanto inutili gare per godere dei favori del potere, pare posseduto dalle forme più subdole di bestialità (sta qui il metaforone con il presente?). Di fronte alla rigorosa suddivisione dei ruoli di questo mondo poi, le interpretazioni di stampo femminista sono inevitabili: gli uomini sono costantemente messi in disparte quando non apertamente in ridicolo, sempre privi di una reale capacità di azione, mentre le donne hanno (e lottano per) il dominio. Letture sacrosante, ma sempre ambigue, e forse proprio per questo ancora più complesse e interessanti. In questa sede però, per questioni di tempo e spazio, non andiamo oltre.

In fin dei conti insomma, La favorita non è altro che una tragedia, l’ennesima nella filmografia del regista greco, osservata però attraverso il filtro deformante della commedia grottesca in costume; un travestimento che consente a Lanthimos di alludere senza gridare, di osservare senza indugiare nel sadismo, di raccontare senza compiacersi del dolore (e ce n’è di dolore in questo gioco al massacro) messo in scena. La risata nasconde il dramma, ma non lo annulla mai. La giocosa superficialità del mondo rappresentato e il tono leggero con cui vengono raccontati gli infantili screzi tra le due (tre) protagoniste servono ad alleviare le sofferenze mentre queste continuano a maturare, silenziose, sotto la pelle. Per farle esplodere, per ritornare improvvisamente e senza sconti alla tragedia più disperata svelando che la vicinanza al potere è anche e soprattutto una questione di sottomissione e abiura della propria libertà, ci vuole un attimo. Giusto il tempo di tre inquadrature unite da una (straordinaria) dissolvenza incrociata.
Gli Spietati, Marco Catenacci

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VENERDI’ 29 MARZO 2024 ore 20.45


Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno
VENERDI’ 15 MARZO 2024 ore 20.45
lunedì 11 Marzo 2024, 13:16
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MEMORIA
di Apichatpong Weerasethakul
con Tilda Swinton, Elkín Diaz, Jeanne Balibar, Juan Pablo Urrego, Daniel Giménez Cacho, Agnes Brekke, Jerónimo Barón, Constanza Guitérrez
Colombia/Thailandia/Francia/Gran Bretagna/Messico   2021   136′

Memoria. E quindi ricordo. Se lo zio Boonme era un film su un uomo che può ricordare le sue vite passate, Memoria invece è la storia di una donna che si scopre punto di congiunzione tra presente, passato e futuro. Antenna appunto, capace di captare i segnali provenienti da altre dimensioni temporali, manifestazione di un mondo sotterraneo, invisibile eppure interconnesso. Jessica è una botanica che si trova a Bogotà in visita alla sorella malata. Qui, viene svegliata nel cuore della notte da un boato sordo che si ripresenta in situazioni casuali anche durante il giorno. Una presenza invasiva e disorientante di cui Jessica cerca di trovare l’origine grazie all’aiuto di Hernàn, tecnico del suono presso uno studio di registrazione. Nella sua ricerca, incontrerà poi l’archeologa Agnes, a capo di uno scavo che ha riportato alla luce alcuni resti umani risalenti a 6000 anni prima e che mostrerà a Jessica. E poi infine un altro Hernàn (o forse sempre lo stesso?), un pescatore che vive nel cuore della foresta amazzonica lontano dalla civiltà. Un film sulla memoria, dicevamo. Ma la memoria può essere anche rimozione. Ad ogni frammento conservato nella mente corrisponde inevitabilmente un’assenza, l’eliminazione, la cancellazione e dunque l’oblio di qualcos’altro. I ricordi sono solo piccole parti di un più grande quadro esistenziale, fermi immagine estrapolati dal flusso continuo della vita. Quindi ricordare, fissare nella mente, è di per sé un atto di violenza verso qualcosa di vivo destinato alla transitorietà, a non rimanere, ad estinguersi. I ricordi sono allora immagini morte, senza vita, immobili come il corpo di Hernàn disteso in mezzo ad un prato. Ecco allora che Apichatpong indugia sugli spazi in dilatatissimi longtake ed estenuanti riprese a camera fissa.
Ma Memoria è anche un film sul subconscio che riemerge. È un film di spettri che si manifestano, che risalgono da un sé profondo e sconosciuto, tanto da apparirci come un’alterità. La comprensione allora deriva dal contatto con un altro sé, al quale siamo inspiegabilmente connessi secondo una visione filosofica che unisce panteismo e fantascienza, viaggi nel tempo e nello spazio che si rivelano circolari e ritornanti. Chi allora meglio di Tilda Swinton, attrice aliena per eccellenza, a interpretare la protagonista Jessica, elemento d’unione con un mondo passato, che ritorna attraverso il più semplice tocco della mano. Così limpido e spontaneo, e per questo profondamente umano. Non ci può essere vita senza la morte, così non ci può essere memoria senza un corpo che si faccia ospite di ricordi. Ma Apichatpong fa un passo in più, mostrandoci che non ci può essere completezza nella visione e nella comprensione del mondo senza qualcuno a fornirci le chiavi mancanti. Ognuno di noi dunque è portatore di un frammento di storia che nulla significa nel suo solitario isolamento. All’interno di una visione organica del reale, siamo parti, frammenti oscuri, capaci di illuminarsi e trovare senso solo nell’esperienza del contatto, nel ricongiungimento con l’altro, solo tra le mani di qualcuno disposto ad accogliere la nostra storia e a farne, appunto, memoria.
di Chiara Zuccari

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VENERDI’ 15 MARZO 2024 ore 20.45


Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo
VENERDI’ 8 MARZO 2024 ore 20.45
venerdì 01 Marzo 2024, 22:43
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IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO
The Killing of a Sacred Deer
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Cassidy, Sunny Suljic, Alicia Silverstone, Bill Camp, Denise Dal Vera, Barry G. Bernson, Herb Caillouet, Drew Logan, Michael Trester, Ming Wang
Gran Bretagna/USA   2017  109′

Se Il sacrificio del cervo sacro, da pochi giorni in sala, fosse il primo film che si vede di Yorgos Lanthimos forse per qualcuno potrebbe anche essere l’ultimo: molte scene e situazioni sembrano inventate apposta per confondere e provocare, come se la sceneggiatura (scritta, come sempre, assieme a Efthymis Filippou) e la regia perseguissero un progetto di inversa proporzionalità tra la riduzione al minimo delle emozioni mostrate dentro il racconto e, dalla parte opposta dello schermo, la quantità continua di reazioni previste all’esterno. Il perturbante, nel cinema di Lanthimos, non è una situazione portata alla luce drammaturgicamente, o articolata in parole, e nemmeno è un fatto interno, una condizione celata in pectore, quanto piuttosto un elemento completamente estrovertito, messo alla massima distanza dall’analisi e dal linguaggio verbale, per essere trasformato in situazione visuale estrema, come un cuore che pulsa a vista, da un torace aperto da un bisturi, e buttato addosso allo spettatore.

Chi guardasse Il sacrificio del cervo sacro scoprendo il suo regista soltanto adesso, potrà dunque sconcertarsi, divertirsi, appassionarsi, stabilire di aver incontrato uno degli sguardi più significativi e innovatori del cinema contemporaneo; oppure, viceversa, potrà decidere di farla finita, una volta per sempre, con un cinema così assurdo, surreale, ora perfino comico, ora fastidioso. Volendo usare una sola parola: incomprensibile. Volendo usarne qualcuna in più: che chiede di essere visto mentre si capisce, nel senso di contenere, un’esperienza di incomprensione – perciò, qui, diremo meno possibile della trama.

D’altra parte, malgrado il finale aperto e il rifiuto di una storia a soluzione unica siano nuclei forti della poetica di Lanthimos, se consideriamo questo suo ultimo film rimettendolo accanto ai quattro lungometraggi che lo hanno preceduto, ecco che per molti aspetti Il sacrificio del cervo sacro smetterà di sembrarci così strano, per formulare, invece, due domande cruciali che tutti i film di Lanthimos sembrano comporre, e riproporre, con la coerenza e la consapevolezza autoriale che si incontrano quando siamo di fronte a quella che, a tutti gli effetti, ormai si staglia come un’opera complessiva.

La prima questione attorno alla quale gravita la filmografia di Lanthimos, infatti, può essere sinteticamente fissata così: come rielaborare la perdita, una morte di solito, dentro un sistema di vita all’interno del quale è completamente sparito il referente che, nella tragedia greca, per esempio, garantiva la rielaborazione del trauma, vale a dire l’orizzonte extraindividuale della giustizia riconosciuta da una comunità – e che nei drammi antichi era impersonato dal coro. Tutti i film di Lanthimos allestiscono scenari distopici e paradossali che continuamente parlano di morti e di perdite. Anche le straordinarie locandine originali dei suoi lavori preparate da Vasilis Marmatakis raffigurano sempre immagini dove manca qualcosa.

Perdite, mancanze, uccisioni vengono simulate, riportate in scena da singole persone o più spesso ristretti gruppi o nuclei famigliari, che agiscono in una situazione di solitudine e di scollamento assoluto da ogni principio di socialità o da ogni rimando a una possibile coscienza collettiva che possa favorire, come accade nei riti, una rielaborazione comune dei fatti. Kinetta, Dogtooth, Alps, The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro evocano tutti, senza dirla o pensarla, ma servendosi del paradosso per mostrarla in assenza, questa sorta di postumanità dopo la catastrofe.  

I personaggi, infatti, agiscono attraverso simulazioni e esperimenti che cercano di riprodurre fittiziamente, o di sostituire fittiziamente, una morte. Accade in Kinetta, dove un poliziotto e un fotografo, assieme alla cameriera di un resort, rimettono in scena dei delitti; in Dogtooth, dove un padre e una madre tengono i figli prigionieri, da sempre, in una casa bunker, illudendosi di tenerli al riparo dal mondo e evocando via via la morte di un quarto fratello; in Alps, dove un paramedico, un’infermiera, un’atleta di ginnastica artistica e il suo allenatore hanno messo su un gruppo che sostituisce a pagamento persone appena morte, per aiutare parenti e amici a superare il dolore della perdita; ancora, succede in The Lobster, il primo film internazionale di Lanthimos, dove i protagonisti, se sono o sono tornati a essere single, hanno quarantacinque giorni di tempo per riformare una coppia, o saranno trasformati in un animale a loro scelta.

Ma se questa continua tensione alla ricomposizione di un paesaggio, di una storia, di un corpo o di una relazione frantumati da una perdita avviene dentro un mondo che ha perso ogni contatto con gli altri (che esistono soltanto nella forma di relazioni famigliari o di aggregazioni coatte), ecco che arriva la seconda domanda tracciata insistentemente dal cinema di Lanthimos, anche a costo di esplorare i percorsi più grotteschi, che disegnano grandi spazi angoscianti, colmi di solitudine, dove rimbomba a vuoto, dentro la vertigine cercata dalle inquadrature dal basso, sfalsate e deformanti, nella messa in quadro di spazi grandangolari fatti per creare prospettive soffocanti, o, ancora, nelle riprese dall’alto, con un effetto di caduta libera, una domanda che ha smarrito senso e destinatario e che ciò nonostante ci viene ributtata addosso in continuazione: dove può esistere, dove si può ritrovare l’umanità, una volta che la la catastrofe si è compiuta?

Usando in ciascun film soluzioni di taglio che sembrano infilarci assurdamente, a caso, dentro il racconto, le risposte di Kinetta, Dogtooth, Alps, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, sono le più paradossali, perché è come se lasciassero svolgere una situazione di perdita ormai consumata, ma che, proprio per questo, continua a esistere come feticcio, attraverso una relazione arbitraria e impazzita – in senso sonoro, visivo, simbolico e linguistico – tra significati e significanti. Ogni volta si riprendono grandi archetipi del mito greco (la metamorfosi, la struttura a inchiesta, il sacrificio) che sono fatti esplodere, o usati per preparare un’enfasi subito dopo sgonfiata nel grottesco, usando la musica classica (lo Stabat Mater di Schubert nel Sacrificio, i Carmina Burana di Orff in Alps) per creare effetti di rimbombo acustico e visivo dentro spazi del tutto inattesi. Sembra quasi di procedere alla cieca, come Edipo, senza riuscire a concludere. Il trauma è presente, ma è scarnificato, sedato: da una drammaturgia surreale, da una recitazione algida, da immagini sfocate (nei primi lavori), o da inquadrature a strapiombo che procurano vertigine, smarrimento e fastidio, come nel Sacrificio del cervo sacro.

Lo spettatore è ammutolito dalla visione, per via di carrellate tanto più lente quanto più sono colme di una tensione tanto più presente quanto meno è nominata. Si rimane agghiacciati dalla recitazione portata fino ai bordi dell’afasia, specialmente nell’ultimo film, attraverso i protagonisti, e in particolar modo Anna/Nicole Kidman, che per far sesso con il marito (sono entrambi medici) “gioca” a fare un corpo che ha perduto i sensi (e le emozioni) per l’anestesia:

Proprio il personaggio interpretato da Kidman, tra l’altro, può essere utile a riflettere meglio sulla regia de Il sacrificio del cervo sacro. Lanthimos ha preso l’attrice che più di tutte sa lavorare sulle corde dell’orgoglio altezzoso, quasi divino, per letteralizzare questa personale risorsa, portandola però fino ai bordi del grottesco, e renderla, proprio da questa strada, straordinariamente intensa e autentica proprio per quanto è finta. Anna, che entra in scena a una bella tavola di famiglia, distrattamente impegnata nel pensiero di nuovi divani per la sua clinica, nel corso del film diventerà infatti la maschera nuda perfetta di un dolore materno tanto più intenso quanto più scarnificato e asettico.

Suo marito, Steven Murphy (Colin Farrell) è un rinomato cardiochirurgo; hanno due figli, Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic). Nelle prime sequenze di Il sacrificio del cervo sacro non sono chiare le ragioni della misteriosa relazione che Steven intrattiene anche con un altro ragazzino un po’ più grande: Martin (Barry Keoghan), figlio, come si scoprirà più avanti, di un uomo morto per cause che probabilmente coinvolgono la responsabilità di Steven; e che scateneranno, nella seconda parte del film, una sequenza parossistica di gravi disturbi psicosomatici in Bob e Kim, che solo una scelta dolorosa da parte di Bob potrà interrompere. Il sacrificio del cervo sacro riprende, nei temi e nella struttura, alcuni grandi archetipi dei miti greci: il motivo del capro espiatorio, o delle colpe dei padri che ricadono sui figli, il sacrificio, la vicenda della tragedia Ifigenia in Aulide, di Euripide.

C’è il rischio del cinismo, in questo ultimo film forse più che altrove. Il secondo lavoro internazionale di Lanthimos contiene la possibilità e l’insidia che la cultura dei miti greci sia schiacciata, attraverso la trasformazione del perturbante in elemento puramente scenico e visuale, in un repertorio for dummies, in una pura operazione di divertimento che alla lunga potrebbe inaridirsi. Ma, almeno per adesso, è soltanto un rischio.

Doppiozero, Daniela Brogi

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VENERDI’ 8 MARZO 2024 ore 20.45


Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo
VENERDI’ 1 MARZO 2024 ore 20.45
martedì 27 Febbraio 2024, 12:27
Filed under: cinemapiù 43

THE LOBSTER
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Rachel Weisz, Jessica Barden, Olivia Colman, Ashley Jensen, Ariane Labed, Angeliki Papoulia, John C. Reilly, Léa Seydoux, Michael Smiley, Ben Whishaw, Roger Ashton-Griffiths,
Rosanna Hoult
Grecia/Gran Bretagna/Irlanda/Paesi Bassi/Francia   2015   118′

Diretto da Yorgos Lanthimos e scritto dal regista con Efthimis Filippou, The Lobster è ambientato in un futuro prossimo, quando tutte le persone single vengono arrestate, sono trasferite in un luogo chiamato Hotel e hanno 45 giorni di tempo per trovare la loro anima gemella. Altrimenti, rischiano di essere trasformati in un animale di loro scelta. Per scappare a tale destino, un uomo fugge e si rifugia in un bosco, dove si unisce a un gruppo di resistenza, denominato “i Solitari”.

Con la direzione della fotografia di Thimios Bakatakis, le scenografie di Jacqueline Abrahams e i costumi di Sarah Blenkinsop, The Lobster è il primo progetto in lingua inglese di Lanthimos, regista nato ad Atene che prima di esordire nel mondo dei lungometraggi cinematografici ha diretto numerosi balletti e collaborato con diversi coreografi greci. Direttore di cortometraggi, video musicali e spot pubblicitari, Lanthimos ha esordito al cinema con Kinetta, film ben accolto dalla critica e presentato ai festival di Toronto e Berlino. Kynodontas, il suo secondo lungometraggio, ha poi vinto il premio Un certain regard al Festival di Cannes 2009 e vari altri riconoscimenti in giro per il mondo, prima di essere candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2011. Alps, suo terzo film, invece, ha ottenuto l’Osella per la miglior sceneggiatura originale alla Mostra del Cinema di Venezia 2011 e il premio come miglior film al Festival del Film di Sidney nel 2012.

The Lobster, frutto di una coproduzione internazionale, è stato girato interamente in luoghi già esistenti, come l’hotel Parknasila Resort & Spa e la contea di Kerry, sulla costa sudoccidentale dell’Irlanda. Si tratta del primo film che Lanthimos gira fuori dal suo Paese natale con un cast e una troupe internazionali. Protagonista del film è l’attore Colin Farrell nei panni di David. Lo affiancano Rachel Weisz (è la donna miope), Jessica Bardem (la donna che sanguina dal naso), Olivia Colman (la direttrice dell’Hotel), Léa Seydoux (il capo dei Solitari) e John C. Reilly (l’uomo affetto da blesità).
Note

Yorgos Lanthimos vive e lavora in Inghilterra, continua a scrivere con il suo collaboratore di fiducia Efthimis Filippou, e riflette in un’altra lingua sull’atrofizzazione dei sentimenti, che porta presto all’eclissi della ragione e alla mostruosità, qui quasi medievale.

Filmtv.it

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VENERDI’ 1 MARZO 2024 ore 20.45


cinemapiù 43 marzo 2024
lunedì 26 Febbraio 2024, 12:29
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Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno
VENERDI’ 23 FEBBRAIO 2024 ore 20.45
venerdì 16 Febbraio 2024, 22:57
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CEMETERY OF SPLENDOUR
Rak ti Khon Kaen
di Apichatpong Weerasethakul
con Jenjira Pongpas. Jarinpattra Rueangram, Banlop Lomnoi
Francia/GB/Germania/Malesia/Thailandia   2015   122′

Soldati con una misteriosa malattia del sonno sono trasferiti in un ospedale provvisorio allestito in una scuola abbandonata. Jenjira offre di prendersi cura di Itt, un bel soldato che nessuno visita. Fa anche amicizia con Keng, una giovane medium che usa i suoi poteri per aiutare le famiglie a contattare gli uomini addormentati. Un giorno Jenjira trova il diario di Itt, ricoperta di scritte strane e schizzi. Forse c’è una connessione tra l’enigmatica sindrome da cui sono affetti i soldati e il mitico luogo antico che si estende sotto la scuola? Magia, guarigione, romanticismo e sogni si mescolano sulla strada di Jenjira, alla ricerca di una profonda consapevolezza di sé e del mondo che la circonda.

Negli occhi aperti/sbarrati di Jenjira, fissi su un gruppo di bambini che sta giocando a calcio tra le dune di terra sollevate dalle grandi ruspe al lavoro per la nuova cementificazione di un’area rurale, si nasconde il senso intimo e al contempo universale di Cemetery of Splendour, il nuovo film di Apichatpong Weerasethakul presentato in concorso nella sezione Un certain regard alla sessantottesima edizione del Festival de Cannes. Lo sguardo di Jenjira, che attraversa lo spazio e il tempo per rintracciare le coordinate della propria esistenza, dei propri amori perduti, è anche lo sguardo di una nazione sognante e costretta a intervalli regolari a ridestarsi dal sonno per confrontarsi con la realtà.
Sono la Thailandia i soldati afflitti dalla strana malattia che li porta a dormire nello stanzone di un ex-scuola trasformata in un ospedale improvvisato: un paese diviso tra l’incedere della modernità e il retaggio mistico e ancestrale della campagna, da cui echeggiano i versi di un passato glorioso, che negli ultimi ottant’anni ha vissuto un’altalena continua tra dittature militari e brevi momenti di risveglio democratico. Il sonno della dittatura (e quindi della ragione) genera mostri, ma i personaggi di Cemetery of Splendour appaiono più come ectoplasmi alla ricerca di una propria dimensione, probabilmente impossibile da raggiungere.

Cemetery of Splendour inizia lì dove erano finiti i vari Mysterious Object at Noon, Blissfully Yours, Tropical Malady, Syndromes and a Century,Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti e Mekong Hotel: un mondo destinato all’estinzione che cerca di rinnovare la propria memoria di sé, dell’essere in vita, del ricordare. Se può essere considerato cinema resistente, quello di Weerasethakul, non è “solo” perché propone una visione altra alla prassi, ricollocando lo sguardo su traiettorie dimenticate nel corso degli anni, ma anche e soprattutto perché attraverso la “visione” il regista thailandese riesce ancora a cristallizzare e problematizzare una questione (non solo) privata. Cemetery of Splendour è ambientato nel nord-est, nella regione dell’Isan, la stessa in cui crebbe Weerasethakul con la sua famiglia, composta da due genitori entrambi medici; non è certo un caso che torni preponderante l’ambiente ospedaliero, già al centro di Syndromes and a Century, così come non è casuale che i dialoghi tornino a vagheggiare dei combattimenti al confine con il Laos, del tentativo di “thaizzazione” dell’area.
I militari dormienti sono il cuore di una Thailandia riottosa e sconfitta, guidata da ambizioni spropositate di potere e dalla memoria di un passato glorioso che non tornerà più. Le aule delle grandi regge sono immateriali, le si deve voler scorgere attraverso la boscaglia, immaginandole.

Più ancora che in passato, è l’immaginazione l’unico veicolo di relazione umana che riesce realmente a consolidarsi in Cemetery of Splendour. Se si sente il bisogno di alzarsi sull’attenti è in un cinema, di fronte a uno schermo bianco su cui, per pochi istanti, sono passate le immagini di un trailer ai limiti del demenziale (l’ipotetico The Iron Coffin Killer). Guidando lo spettatore attraverso una rete infinita di stratificazioni culturali – dalle più palesi alle più recondite – Weerasethakul teorizza la necessità di guardare, fissare nella mente, immobilizzare nella retina il mondo che ci circonda, indispensabile atto per compenetrarvisi. L’occhio viene accolto in una zona liminare, protetto e contemporaneamente esposto; le luci soffuse e cangianti che dovrebbero accompagnare il sonno dei soldati in ospedale sono lì anche per lo spettatore, per ridestarlo e irretirlo. È l’ipnosi collettiva, l’assuefazione a un modello distorto (la ginnastica/ballo, la promozione di una crema di bellezza per le donne del villaggio) a spingere verso la distruzione dell’immaginario. Solo l’immateriale può ancora salvare il mondo, perché la materia è deperita, svilita, corrotta.

I fantasmi che vivono Cemetery of Splendour (e il cinema di Weerasethakul nella sua interezza) non sono paragonabili a quelli, per rimanere fermi ai film presentati sulla Croisette, di Kiyoshi Kurosawa o di Miguel Gomes – il piccolo cagnolino Dixie… Sono i fantasmi di un passato vissuto, lacerante e dolce, deplorevole e amato. È qui che il film trova la sua collocazione politica. Non si tratta semplicemente di un viaggio nel passato e nel presente della Thailandia, né di una metafora – per quanto mirabile – dell’accettazione della perdita. Cemetery of Splendour è un’elegia trattenuta e sempre spiazzante dell’atto dello sguardo come conoscenza e riconoscimento dell’altro. “L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lacrima”, affermava anni or sono Alberto Grifi, e Weerasethakul testimonia questa verità con un’opera sontuosa, con la quale ci si deve confrontare per poter tentare di comprendere l’umano di oggi, e il macchinario visionario attraverso il quale codifica l’esistente. E l’inesistente. Il cinema di Weerasethakul è l’evoluzione biologica di un occhio che fu evoluzione biologica di una lacrima: al suo interno si agitano gli spettri della Thailandia, della propria memoria, del cinema, del passato e del presente, del documento “reale” (la gamba di Jenjira è quella che Jenjira Pongpas Widner si vide deturpare a seguito di un grave incidente stradale nel 2003) e della totale ricreazione visionaria.

Tutto intorno si attua un teatro permanente, rappresentazione viva (perché nata già morta, inerte) di un presente che non ha più respiro, e si accontenta di dormire. Sognare, forse. Sbarra gli occhi, Jenjira, come la Margherita in lutto di Mia madre e, a ben vedere, come il Paul Dedalus di Trois souvenirs de ma jeunesse. Tutti con gli occhi sbarrati, nel disperato tentativo di risvegliarsi, e scoprire che nulla è quel che è, nella realtà. Sempre che esista, la realtà. Avrebbe meritato di concorrere per la Palma d’Oro, Cemetery of Splendour, ma è probabile che un cinema così potente e destabilizzante continui a far paura a chi mette in scena macchinari dell’immaginario ben più standardizzati come i festival.
Quinlan, Raffaele Meale

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VENERDI’ 23 FEBBRAIO 2024 ore 20.45



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