lunedì 14 Aprile 2025, 10:10
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The Holy Mountain di Alejandro Jodorowsky con Alejandro Jodorowsky, Horacio Salinas, Zamira Saunders, Valerie Jodorowsky, Ana De Sade USA 1973 115′
Guardare un film di Alejandro Jodorowsky non è un’operazione semplice. Innanzitutto, significa entrare nella mente del suo autore, scoprire la sua personale visione del mondo e dell’uomo. In secondo luogo, significa entrare in contatto con uno stile registico imprevedibile, surreale ed estremamente simbolico. Nel caso de La montagna sacra(1973) è necessario in tal senso compiere un grande sforzo dal punto di vista spettatoriale per comprenderne a fondo lo sviluppo e le ragioni, ma una volta svelato ciò che si cela al di là della mera apparenza diventa presto evidente il perché sia considerato il magnum opus del regista franco-cileno.
Volendo individuare una struttura al film, la trama può essere suddivisa nei classici tre atti, sebbene le regole tradizionali della narrazione vengano di fatto completamente sovvertite. Nella prima parte de La montagna sacra, Jodorowsky ci mostra il progressivo superamento dalla propria condizione di dissoluzione di un personaggio chiamato il ladro che assomiglia molto a Gesù Cristo. Dopo una serie di disavventure (come nel caso di alcune figure apparentemente religiose che lo inducono ad ubriacarsi per poi creare dei modelli di cera del suo corpo inerme raffigurante la crocifissione), il ladro raggiunge una torre nel quale risiede un alchimista, interpretato da Jodorowsky stesso. Nella seconda e nella terza parte del film, l’alchimista introduce al ladro alcune delle figure chiave che lo accompagneranno nel viaggio verso la cosiddetta montagna sacra, un luogo che potrà garantire loro l’illuminazione spirituale.
A giocare un ruolo fondamentale ne La montagna sacra sono lo strumento dei tarocchi, e nello specifico i tarocchi marsigliesi. «I tarocchi ti insegneranno a creare un’anima»: nel corso della sua preparazione, il ladro impara dall’alchimista alcune delle proprietà fondamentali di questi strumenti, che vengono di fatto presentati come simboli capaci di determinare con precisione l’essenza di ciascuna delle persone con le quali si recherà alla montagna sacra. Proprio il ladro ad esempio rappresenta la carta de Il Folle, che come spiega il regista stesso simboleggia la libertà totale, l’assenza di limiti e definizioni. La visione di Jodorowsky dell’arte dei tarocchi si allontana dalla concezione popolare e si avvicina al loro uso reale, dove il misticismo incontra l’introspezione psicologica: il tarocco come linguaggio ed espressione del presente, in grado di connettere il tutto attraverso «la danza della realtà», nella quale «il mondo danza attorno a te e ti dà ciò che cerchi».
In tal senso, La montagna sacra è il racconto e la messa in atto di un processo di superamento del Sé. Il ladro si allontana gradualmente dalla propria concezione di sé, rifiutando non solo di identificarsi nella figura che sembra determinarlo fisicamente, Gesù Cristo, ma anche abbandonando il proprio statuto attuale. L’alchimista trasforma gli escrementi dell’uomo in oro, mostrandogli l’effettiva possibilità di un cambiamento in positivo. Nel momento in cui l’alchimista intima al ladro di osservare se stesso in uno specchio, quest’ultimo reagisce infrangendo lo strumento proprio con l’oro, non accettando la realtà dell’immagine e accettando così l’invito dell’alchimista.
L’obiettivo del gruppo di persone unite dall’alchimista, lo scalare la montagna sacra verso la conoscenza dei segreti del mondo, pertanto non può che essere perseguito se non con il rifiuto della propria immagine di sé, rappresentato ulteriormente dalla necessità di questi di bruciare delle copie in cera dei loro corpi. In continuità con il frequente ricorso all’immaginario religioso (non solo cristiano, ma universale), La montagna sacra si presenta dunque come un discorso che critica aspramente l’idea di religione intesa come un prodotto soggetto a controlli esterni rispetto alle singole individualità. La ricerca dell’essere e del suo significato è personale e passa solamente dall’uomo, rifiutando riduzioni istituzionalizzanti (che per Jodorowsky conducono solo alla violenza) e la costruzione di immaginari artificiali.
L’arrivo del gruppo presso l’isola dei Lotofagi, nella quale si trova per l’appunto la montagna sacra, rappresenta prima di tutto l’incontro con quelle figure che si sono perse nella materialità e non sono riuscite ad avvicinarsi alla verità. L’abbandono della sofferenza, per Jodorowsky, deve essere perseguito non solo nel rifiuto della propria immagine, ma anche del vizio. Solo in questo modo, insieme alla sconfitta delle proprie paure più intime e radicate, si potrà raggiungere la tanto ambita verità assoluta: l’assenza di ogni verità. Per poter così, tornare alla realtà. Daniele Sacchi
lunedì 07 Aprile 2025, 10:14
Filed under: Cinemapiù 47
Kikujirô no natsu di Takeshi Kitano con Takeshi Kitano, Yusuke Sekiguchi, Kayoko Kishimoto, Kazuko Yoshiyuki, Yuko Daike, Beat Kiyoshi, Great Gidayu, Rakkio Ide, Nezumi Mamura, Fumie Hosokawa, Akaji Maro Giappone 1999 116′
Takeshi Kitano Kitano è di estrazione sociale povera, è nato nel 47, il padre ha lasciato la famiglia quando lui era ancora piccolo e con la madre e i suoi tre fratelli è cresciuto in quartiere povero di Tokyo, Sanju, frequentato dalla yakuza. Questa infanzia così originale lascia un segno importante nella sua vita, un’esperienza che sarà materiale per le sue future sceneggiature. Si iscrive all’università, ma non la porta a termine, in quanto è più interessato alla carriera di comico. Siamo agli inizi degli anni ‘70 e trova lavoro in un cabaret Tokyo, il Français, nel quartiere di Asakusa. Una sera si ritrova a rimpiazzare la spalla di un comico. Qui comincia la sua gavetta. Qualche tempo dopo, con l’amico Kaneko Kyoshi forma il duo Two Beats con il quale ha un discreto successo che lo porta a frequenti apparizioni televisive. In breve tempo diventa un volto molto popolare, tanto che il regista Nagisa Oshima gli affida un ruolo in Furyo (1983), film con David Bowie e la famosissima colonna sonora di Sakamoto. Ingaggiato per il ruolo di protagonista nel film Violent Cop (siamo nel 1989) ne prende in mano la regia facendo un lavoro di rinnovamento del genere noir e del yakuza eiga come nessuno aveva mai fatto. Riduce i dialoghi all’essenziale, toglie espressività agli attori, semplifica le inquadrature e mostra gli effetti degli eventi prima delle loro cause.
Queste saranno le caratteristiche di tutti i film a seguire che Kitano realizzerà e che troveranno espressione più alta prima in Sonatine (1993) e poi in Hana-bi (1997). La maturità la raggiunge proprio con Hana-bi dove il protagonista è un personaggio romantico e violento al tempo stesso, un anti-eroe esistenzialista che sa essere senza pietà verso i criminali ma protettivo e premuroso verso sua moglie. Da questo punto in poi della sua carriera Kitano mette in scena storie in cui c’è una maggiore consapevolezza verso il valore della vita, cosa che non si era vista, per esempio, in Sonatine (emblematico ne è il finale). Sicuramente ad aver inciso su questa evoluzione espressiva è stato il grave incidente di moto del 1994 col quale aveva rischiato di morire.
L’estate di Kikujiro E’ il primo film dopo il successo internazionale e il Leone d’oro di Hana-bi. Kitano si rinnova ancora una volta, probabilmente attingendo al suo talento comico, e mette in scena un’opera inattesa. Un ritorno, dopo due anni, che sa fare ironia di quanto aveva realizzato fino a quel punto, che sposta ancora di più l’attenzione sul lato umano di un personaggio burbero e rozzo. La storia è quella di un road movie, un adulto che accompagna durante le vacanze estive un bambino che vuole incontrare la madre che non vede da molto tempo. Sebbene il bambino in questione sia il protagonista del film, la storia ha senso grazie a Kikujiro, il suo accompagnatore. (E qui capiamo perché il titolo del film è l’estate di Kikujiro e non l’estate di Masao). E’ una scelta interessante quella che fa Kitano: perché permette di spostare l’attenzione su un personaggio che in effetti rende unico questo film: uno scansafatiche, forse uno yakuza, che non sa relazionarsi con nessuno tranne dando degli ordini e che spende tutti i suoi soldi in scommesse, donne e alcool. Un personaggio negativo ma che dietro questa apparenza così dura ha una forte sensibilità e che non esita a aiutare e difendere il piccolo Masao nei momenti più difficili del loro viaggio.
E lo aiuta veramente, per ben due volte nel corso del film: sono i due punti di svolta della sceneggiatura, le due volte in cui il bambino piange. Farà per lui qualcosa che sicuramente non ha mai fatto per nessun altro, intrattenendolo con siparietti comici, arrivando addirittura a coinvolgere altri personaggi, in giochi di un’originalità unica. E’ un incontro di due solitudini, forse anche un po’ scontato per un film di viaggio, ma che funziona narrativamente benissimo. Il bambino, d’altronde, è solo come Kikujiro: vive con la nonna e non ha mai conosciuto veramente sua madre. I suoi amici sono tutti in vacanza. Di Kikujiro sappiamo ben poco ma capiamo che la sola persona che ha accanto è la sua compagna. Kitano ha dichiarato che il vero soggetto di questo film è la timidezza. Nonostante il carattere forte e burbero, è la timidezza che gioca un ruolo importante, che blocca Kikujiro e che gli impedisce di sapere come relazionarsi con Masao (ma anche con il resto della società). Nella sua parabola umanizzante, Kitano ci fa amare, nonostante i suoi molteplici difetti, questo personaggio.
Il film è diviso in episodi, presentati ognuno come le pagine del diario di un bambino, o di un libro per ragazzi. I colori sono quelli dei pastelli di Masao; le musiche di Joe Hisaishi hanno motivi leggeri e fischiettabili. Kitano voleva infatti girare un film diverso dopo Hana-bi, in cui lasciare la violenza fuori campo e parodiare la figura dello yakuza senza pietà. Gli altri personaggi che i due incontrano durante il loro viaggio non sono lo stereotipo del giapponese medio, sono outsider: un poeta nomade, due bikers, una coppia di fidanzati senza meta. Grazie a loro Kikujiro metterà in atto il gioco a cui il bambino avrebbe dovuto partecipare con i suoi amici e potrà sognare situazioni fantastiche da teatro delle marionette. La spiaggia, il mare, ancora una volta diventa il luogo in cui ripararsi, riflettere, ricominciare e lo vedrete anche negli altri film di Kitano, Sonatine e Hana-bi su tutti. Con il mare coprotagonista ha poi girato un film intero, Silenzio Sul mare. Kitano è come il titolo del suo film più celebre, Hana-bi: fiori e fuoco, poesia e violenza; ma per questa volta ha dato prevalenza alla poesia. Mattia Garofano
martedì 01 Aprile 2025, 10:36
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di David Lynch con Naomi Watts, Jeanne Bates, Laura Harring, Robert Forster, Brent Briscoe Francia/USA 2001 145′
Quando si parla di Mulholland Drive, tutti hanno una propria soluzione. È tutto un sogno, è un viaggio tra realtà parallele che si sovrappongono, è l’ennesima opera incomprensibile di un pazzo a cui han rifilato una macchina da presa… tutto vero, tutto falso. Sarà scontato dirlo, ma Mulholland Drive è un film che più di altri necessita della partecipazione dello spettatore, della sua completa attenzione, della sua esperienza per ottenere significato. Insomma, Mulholland Drive è un film interattivo. Siamo dalle parti delle care, gloriose, avventure grafiche degli anni ’90, dove la storia ha un inizio e una fine prestabiliti; ma come percorrere questa strada spetta totalmente al giocatore. Lo suggerisce David Lynch stesso: «Alcuni hanno uno spirito letterale e temono le astrazioni. Si sentono perduti. Vogliono che 2 + 2 = 4. Ce ne sono altri, più intuitivi, che non domandano di meglio che perdersi. Quelli si concedono all’esperienza e arrivano a 4 attraverso altri percorsi». (David Lynch intervistato su Positif n. 490, dicembre 2001).
In Mulholland Drive non abbiamo pulsanti da premere, oggetti da cercare o linee di dialogo da pronunciare, il nostro compito è trovare una via per la soluzione finale, che in realtà, per quanto riguarda almeno la fabula, non è così intricata come sembra. La bionda Diane (Naomi Watts), con i soldi della zia morta e sull’onda dell’entusiasmo per aver vinto una gara di ballo jitterbug, è arrivata a Los Angeles cercando fortuna a Hollywood. Si ritrova invece a fare la cameriera, ma almeno conosce la sensuale Camilla (Laura Harring), attrice in ascesa, con la quale vive un’intensa relazione lesbica. Camilla, però, preferisce la compagnia del regista Adam (Justin Theroux), che sposa per fare carriera, rompendo con Diane che non la prende bene, tanto da decidere di assoldare un killer e farla ammazzare. A cose fatte, disperata, Diane sogna gli ultimi giorni della sua vita mescolando fatti, volti, nomi, luoghi, oggetti e rivivendoli come se fosse un film, per poi spararsi in testa in preda al rimorso. Bum! Pare tutto risolto; qual è il mistero allora? Semplice, tutto il resto.
Dapprima nel mescolamento temporale proposto da Lynch, con i primi due terzi di film dedicati esclusivamente al sogno di Diane e solo in seguito a ciò che pare effettivamente successo, cosa che crea un fortissimo spaesamento (almeno alla prima visione) anche perché quanto viene raccontato è tutta un’altra cosa. Ovvero: un’avvenente mora (Laura Harring) scampa a un incidente automobilistico, ma le contusioni le hanno provocato un’amnesia quasi totale. Trova riparo nell’appartamento della zia di Betty, al momento occupato da quest’ultima (Naomi Watts), appena giunta a Los Angeles per fare l’attrice. Betty decide di aiutare la smemorata (che si chiama provvisoriamente Rita), un po’ perché se ne è innamorata, un po’ perché nella borsa ha un sacco di soldi e una strana chiave blu triangolare. Mentre il regista Adam (Justine Theroux) si vede rovinare la vita da dei produttori/gangsters, durante le loro indagini Betty e Rita si imbattono nel cadavere di una donna chiamata Diane e in un locale, il Club Silencio. Dopo aver assistito a uno spettacolo, Betty trova nella borsetta un cubo blu, che pare aprirsi con la chiave triangolare. Rita apre il cubo, tutto scompare e il film ricomincia nella stanza da letto di Diane, con la sua storia “parallela”. La faccenda comincia a farsi complicata, e senza tirare poi in ballo tutti i personaggi e i fatti di contorno che imperversano sia nella parte “sognata” che in quella “reale”.
La concatenazione, cronologica o meno, delle sequenze, micro o macro che siano, indica una progettualità, uno sviluppo predeterminato, e quindi un percorso, con una sua (almeno presunta) fine e un suo scopo. Sta allo spettatore/giocatore trovarlo, senza alcun indizio se non quanto si vede sullo schermo e la (quasi) certezza che, ben nascosto da qualche parte, un senso a tutto c’è, uno qualsiasi. Certo, ci sono delle cut-scene, sequenze cui bisogna per forza passare per proseguire con il gioco, come lo spettacolo in playback al Club Silencio e l’apertura del cubo blu, che ci piace immaginare di Schroedinger, scatola con dentro (o forse no) il celebre gatto vivo e morto, contenitore di realtà simultanee e ghignanti demoni prezzolati, slot machine quantistica che rimescola le carte e fa ripartire il gioco. Mulholland Drive è un open world dove possiamo muoverci a piacimento per ricollegare fatti, luoghi, nomi, frasi che ci indichino la direzione verso il prossimo mistero, nella speranza di non dover ridiscutere quanto accertato fino allora, perché come in un’avventura grafica, c’è il rischio fortissimo di incartarsi, di seguire una strada e trovarsela sbarrata subito dietro una curva, di arrivare al game over e dover ricominciare nel migliore dei casi dall’ultimo “save”. E in questi casi, l’unica è giocare di nuovo, e ancora, e ancora. Fosse davvero un videogame, Mulholland Drive avrebbe una rigiocabilità pazzesca. Come minimo.
lunedì 17 Marzo 2025, 11:13
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di Wim Wenders con Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski, Dean Stockwell, Aurore Clément, Hunter Carson, Bernhard Wicki, Socorro Valdez, John Lurie, Justin Hogg, Edward Fayton USA 1984 145′
Gli spazi infiniti del deserto americano attraversati da un vagabondo in chiaro stato confusionale: è l’inizio folgorante di Paris, Texas che gioca da subito la carta dello spaesamento e del contrasto. Wim Wenders inquadra rocce, cieli e orizzonti stabilendo una nuova geografia interiore: questi luoghi non sono più semplici sfondi ma indizi rivelatori di uno stato dell’anima. Travis (Harry Dean Stanton) li attraversa come un fantasma alla ricerca del proprio luogo d’origine, tabula rasa di memoria e linguaggio. Là dove è la nascita di tutte le cose, lì si compie anche la loro dissoluzione, in un viaggio che è principalmente dimenticarsi di sé e imparare a guardare il mondo.
La fotografia di Robby Müller inonda queste terre desolate di una luce che William Faulkner avrebbe definito “fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica”. Travis ha lo stupore catatonico di un Ulisse che ha perso contemporaneamente Penelope e Telemaco e non ritorna a casa ma, amaramente, nel nulla che lo ha generato. La chitarra di Ry Cooder accompagna con una sottile malinconia questa disgregazione dell’unità familiare, in uno strappo del passato che il tempo non riesce a risanare. Travis viene recuperato dal fratello Walt (Dean Stockwell) ma fatica a inserirsi nella vita civile dopo quattro anni di esilio “in the middle of nowhere”.
Ma Paris, Texas nella seconda parte diventa un atto di contrizione, una consapevolezza che si trasforma in espiazione. Ritornato in sé, venendo a contatto con Hunter, il figlio perduto, Travis ne assume la purezza dello sguardo. Esemplare la scena di padre e figlio che si copiano le camminate ai lati opposti della strada: in quel campo-controcampo risiede tutta la magia di un cinema che svela il segreto del sentimento nascente.
Wenders pone la macchina da presa ad altezza bambino e viaggia da Los Angeles ad Houston con questo particolare punto di vista: le insegne al neon, i tramonti rosso fuoco, le nuvole basse. Tutto è visto come se fosse la prima volta. L’utilizzo delle lenti bifocali pone in primo piano contemporaneamente paesaggio e volto, sottolineando l’importanza dell’elemento naturale sulla mutazione dell’espressione umana. Jane (Nastassja Kinski) si guadagna da vivere lavorando in uno squallido peep-show dalle forti tinte bluastre e rossastre. È la madre dimenticata, la moglie traditrice. Wim Wenders, in maniera geniale, mette Travis e Jane uno di fronte all’altra separati da una parete di vetro trasparente che consente all’uomo di potere osservare senza essere visto. Dalle autostrade assolate americane passiamo improvvisamente ai toni scuri di un teatrino di periferia con annessa rock band.
Nell’ultimo confronto in cui è la voce umana a prendere il sopravvento (Jane ammetterà a capo chino “Ogni uomo ha la tua voce”), Sam Shepard (co-sceneggiatore del film insieme a Wenders e Kit Carson) propone un dialogo molto realistico, fatto di ammissioni e di accuse, di consapevolezza e perdono, di vigliaccheria ed eroismo. Proprio questa lunga confessione finale trasforma l’assenza visiva in flusso di coscienza in “vivavoce,” restituendo la drammaticità di una storia d’amore impossibile archiviata in un Super 8 amatoriale. Jane e Travis si scambiano continuamente i ruoli, dandosi le spalle, tra la luce e l’oscurità. Nastassja Kinski usa tutta la sua bravura d’attrice nella comunicazione non verbale passando da un atteggiamento offensivo ad uno di placida arrendevolezza. Nel momento in cui si riconoscono, il loro sentimento è diventato di pietra. Jane spegne la luce e può adesso vedere al di là del vetro. Travis compie l’unico gesto che possa dare un senso alle loro esistenze; poi può riprendere il suo viaggio alla cieca, lasciando che siano i luoghi a dettare la direzione.
Palma d’oro a Cannes nel 1984, Paris, Texas è il film di Wenders che meglio amalgama il cinema classico americano con il Nuovo Cinema Tedesco: tra deserti aridi e intrecci di autostrade il viaggio del protagonista si trasforma in un percorso circolare ed eterno, una odissea nello spazio interiore con qualche accecante barlume di consapevolezza. Sentieri Selvaggi, Fabio Fulfaro
lunedì 10 Marzo 2025, 11:06
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Crna Macka, Beli Macor di Emir Kusturica con Bajram Severdzan, Florijian Ajdini, Srdjan ‘Zika’ Todorovic Jugoslavia/Francia. 1998 120′
Magistrale divertissement diretto da Emir Kusturica (anche sceneggiatore con Gordan Mihic) dopo il successo e le feroci polemiche di Underground (1995), con annesso sostanziale esilio dalla Bosnia e da Sarajevo. Se Underground rappresentava una cesura fondamentale nella vita e nella carriera di Kusturica, Gatto nero, gatto bianco è insieme l’alba di un nuovo autore e l’ultima, tanto di maniera quanto straordinaria, opera d’arte del Kusturica che fu. Esagitato, forsennato, esilarante e irriducibile a qualsivoglia limite di forma, il film è un affresco e un meraviglioso omaggio al lato più vitale e assolato della cultura zingara. Non c’è la durezza della vita di Il tempo dei gitani (1988), c’è solo l’insopprimibile vitalismo di canaglie e maneggioni senza vera violenza, senza vero conflitto, senza il lato oscuro. Una pellicola solare e vitale, una fuga nella fantasia e nella bulimia compositiva per risollevarsi dal peso di un lavoro troppo grande e troppo sanguinoso come il precedente. Con Gatto nero, gatto bianco, il regista ha cercato di levitare, di alzarsi dal suolo senza peso come molti dei suoi eroi. Forse eccessivo, ma a tratti irresistibile. Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia. Musiche di Vojislav Aralica, Nele Karajlic e Dejan Sparavalo. LongTake
lunedì 03 Marzo 2025, 11:28
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A Private Function di Malcolm Mowbray con Michael Palin, Maggie Smith, Denholm Elliott, Reece Dinsdale, Alison Steadman, Bill Paterson Gran Bretagna 1984 93′
Garbata commedia inglese venata da un sottile umorismo britannico che ne fa un film intelligente, valorizzato dall’originalità del soggetto e dalla presenza nel cast (tra i protagonisti) dell’ex Monty Python Michael Palin, in qualche modo capace di far risorgere, a tratti, l’inconfondibile comicità del gruppo madre. Siamo nel 1947, nell’immediato dopoguerra e il razionamento della carne costringe i ricchi a comprarla di nascosto, illegalmente. Così, per festeggiare debitamente le nozze tra Filippo di Edimburgo ed Elisabetta, un gruppo di nobili alleva in gran segreto il maiale che dovrà servire per il banchetto. Ma un callista (Palin), spinto da una moglie (Maggie Smith) smaniosa di tentare l’arrampicata sociale, lo ruberà. Palin è impagabile quando parla del suo lavoro (calli, verruche e geloni) durante le cene in famiglia, la Smith gli tiene testa con un’interpretazione godibilissima che accende frequenti, spassosi duetti. Purtroppo la sceneggiatura fatica a tenere alto il ritmo e non di rado Pranzo Reale si affloscia. Ma poi risorge con delicatezza, con annotazioni comiche riuscite, con personaggi (la madre settantaquattrenne) non banali e trovate insolite, mantenendo sempre quell’apparente serietà nelle interpretazioni che, in contrasto con le follie quasi surreali che vediamo in scena, provoca le risate. Se insomma cercate un buon esempio di english humour lo trovate in Pranzo Reale, in una direzione degli attori corretta, un’ambientazione insolita e una regia (di Malcolm Mowbray, che dopo questo film verrà chiamato in America a dirigere Il Macellaio, con John Lithgow) non esaltante ma abbastanza pimpante. Un film lontano dalla grandeur statunitense. Il Davinotti