E’ ARRIVATA MIA FIGLIA! Que Horas Ela Volta? di Anna Muylaert con Regina Casé, Michel Joelsas, Camila Márdila Brasile 2015 114′
Dopo aver affidato la figlia Jessica alle cure e all’educazione di alcuni parenti nel nord del Brasile, Val trova un impiego a São Paulo come governante e svolge il suo lavoro con premura e attenzione. Tredici anni dopo, Jessica si presenta in visita e affronta sua madre criticandone l’atteggiamento succube e spiazzando tutti gli inquilini della casa con il suo comportamento imprevedibile. La regia del film è di Anna Muylaert, acclamata regista e sceneggiatrice, oltre che critica cinematografica, e conosciuta soprattutto per l’eccentrico Durval Discos, e È proibido fumar, Miglior Film al Festival Internacional de Cinema de Brasilia e numerosi altri premi. Grazie a È arrivata mia figlia!’, la regista ha ottenuto un riconoscimento internazionale con il premio speciale della giuria al Sundance e il Gran premio del pubblico al Festival di Berlino. La pellicola affronta una tema molto sentito nella realtà brasiliana, un paradosso sociale risalente al periodo del colonialismo secondo il quale la società sia divisa in ordinamenti invalicabili. Un sistema tanto radicato da plasmare tutt’oggi l’architettura emotiva delle persone. Come racconta Anna Muylaertun, lo storia nasce dal bisogno di parlare di un problema reale ed è proprio per questo che se in un primo momento il progetto era stato pensato seguendo l’approccio di uno stile ricalcante la tradizione del realismo magico brasiliano, poi la regista ha optato per un strada più realistica. Riprendendo le sue parole, È arrivata mia figlia! può essere considerato un film sociale, ma non solo. Il suo approccio diretto “non intende né giudicare né esaltare i personaggi, vuole semplicemente mostrare la nuda verità”. La storia si articola come uno scontro generazionale di due donne, madre e figlia di umili origini, nate nel nordest del Paese. Protagonista è Val, interpretata da Regina Casé, una delle attrici brasiliane più conosciute in ambito teatrale, cinematografico e televisivo. Angela Santomassimo, noteverticali.it
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LETIZIA BATTAGLIA SHOOTING THE MAFIA di Kim Longinotto con Letizia Battaglia Irlanda 2018 97′
Vita e carriera di Letizia Battaglia, fotografa palermitana e fotoreporter per il quotidiano L’Ora, raccontata con taglio intimo e privato, a partire dalla sua turbolenta giovinezza. Dal lavoro sulle strade per documentare i morti di mafia, all’impegno in politica con i Verdi e la Rete, Battaglia è stata una figura fondamentale nella Palermo tra gli anni Settanta e Novanta.
“Sono sempre stata una donna in lotta, senza saperlo”. Così dice di sé la siciliana Letizia Battaglia, 84 anni e la testa lucidissima, nel documentario rivelatorio che le dedica Kim Longinotto, regista dal curriculum militante, figlia di un fotografo italiano.
Realizzato montando interviste recenti con spezzoni di film, filmini amatoriali e foto realizzate da Battaglia nel corso della sua lunghissima carriera, Longinotto innesca il racconto portando subito lo spettatore al cuore della donna che domina lo schermo – fisico possente, caschetto tra il rosso e il rosa, sguardo vivace – dipingendo il ritratto esplosivo, in pieno post #metoo, di una gigantessa dell’emancipazione femminile.
Sposata prestissimo, a 16 anni, Battaglia tradisce e lascia il marito, dal quale rischia di farsi sparare addosso (“La sua storia la sapeva tutta Palermo”), e approda alla fotografia solo dopo aver compiuto quarant’anni. Sono gli anni Settanta, quelli della Palermo in cui “capitavano anche cinque omicidi al giorno”, e lei riesce a farsi assumere, prima donna in Italia, come fotoreporter al giornale L’Ora. Le sue foto, rigorosamente in bianco e nero, ritraggono i morti della mafia ma anche i mafiosi in pieno volto, spesso umiliati dai suoi scatti negli attimi successivi all’arresto.
Quel che interessa a Longinotto – ben consapevole della fascinazione che ancora oggi i padrini corleonesi esercitano all’estero – è l’approccio di Battaglia ai suoi soggetti. Il fatto, cioè, che vedesse (e ritraesse) la mafia per quel che era: “gente sciatta e vestita male”, lontana dall’epica moderna del gangster-chic, di cui era inevitabile avere paura. “La mafia a Palermo è ovunque – avverte apocalittico un giornalista inglese in una delle corrispondenze montate all’interno del film – anche al cimitero”.
Il documentario procede ordinatamente, sul piano della cronaca, con l’arco tragico dei massacri di mafia (Falcone e Borsellino), ma il cuore del racconto resta su Battaglia: una donna che ha scelto il lavoro come liberazione, la libertà sessuale come emancipazione, e che nelle fotografie trova qualcosa di più di una semplice realizzazione personale. Fotografare è per Battaglia partecipare: è condividere, ma nel senso più solidale e meno narcisistico del termine. Lasciata la fotografia per la politica, “esperienza umiliante”, Battaglia lascia anche il suo compagno. “Sono rimasta per vent’anni da sola”, dice oggi, per nulla turbata, presentando alla camera di Longinotto il suo nuovo partner di 38 anni più giovane. Una storia d’amore, di ferocia e tenerezza che meritava, davvero, di essere raccontata. Ilaria Ravarino, MyMovies
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PLAY di Ruben Östlund con Anas Abdirahman, Sebastian Blyckert, Yannick Diakité, Sebastian Hegmar, Abdiaziz Hilowle, Nana Manu, John Ortiz, Kevin Vaz Svezia/Francia/Danimarca 2011 118′
Partendo da un fatto di cronaca molto discusso, Östlund racconta l’odissea di un gruppo di ragazzi che vengono inseguiti, molestati e infine derubati da un gruppo di altri quattro ragazzi neri, che imbastiscono una contorta messa in scena in cui le vittime sono anche gli attori principali. Un soggetto come questo avrebbe potuto essere un potenziale combustibile per alimentare l’odio razziale, ma per Östlund è lo spunto per costruire una riflessione sull’abuso di potere e sul perbenismo della società occidentale. La descrizione delle conseguenze dei processi migratori contemporanei è infatti marginale, perché per il regista tutti i personaggi sono ugualmente svedesi, ponendosi agli antipodi rispetto a una tendenza, sebbene spesso buona negli intenti, di raccontare una minoranza o una categoria protetta in modo edulcorato, annullando le sfumature negative, proponendo una rappresentazione del reale è completamente distaccata dal mondo.
Play rifugge anche da tutti gli stereotipi registici che hanno caratterizzato una certa tipologia di lungometraggi basati sulla rappresentazione di comunità disagiate e marginali: primi piani e camera a mano vengono eliminate in favore di un approccio documentaristico, caratterizzato da inquadrature ampie e movimenti di macchina impercettibili. Queste scelte stilistiche permettono di mantenere un certo distacco dai personaggi, disinibendo completamente l’immedesimazione emotiva dello spettatore. In questo senso, risulta esemplificativa la prima sequenza: interamente ambientata in un centro commerciale, è costituita da una serie di inquadrature che emulano l’estetica e la composizione di quelle registrate da un sistema di sorveglianza a circuito chiuso, introducendo quel voyeurimo che si manterrà per tutta la durata del film, come se spiassimo dei frammenti di vita quotidiana da un punto nascosto. Questo punto di vista viene amplificato attraverso l’uso degli zoom, esclusivamente ottenuti fase in montaggio, che conferiscono un tono distaccato, quasi artificiale, alle riprese.
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In Play questo approccio viene attualizzato, riflettendo sugli stereotipi oggi radicati anche nella fasce più giovani della popolazione. Per un paradossale ribaltamento, i piccoli criminali recitano semplicemente il ruolo negativo che gli è stato affibbiato da una società caratterizzata da un clima di terrore verso il diverso, ma questo non significa minimizzare le loro azioni violente. L’intento di Östlund è quello di sottolineare come gli schieramenti politici in gioco non sembrino avere alcun interesse nel risolvere il problema delle discriminazioni razziali e delle disuguaglianze sociali, impedendo di fatto l’avanzamento del processo di integrazione.
Questo concetto trova rappresentazione metaforica nella serie di scene in cui una culla viene abbandonata su un treno e nessuno se ne vuole farne carico. Ecco che emerge il nocciolo della questione: la mancanza di una risposta a un grave problema sociale genera violenza, che non è propria solo della banda ma è parte integrante di ogni persona, inclusi gli adulti che entrano in scena ultime scene del film. Tutti i personaggi, nessuno escluso, sono infatti caratterizzati dalla stessa volontà di imporsi sull’altro, di schiacciare l’elemento più debole del contesto. Quella mostrata da Östlund è una società unita nella prevaricazione del prossimo, una tendenza sotterranea ma presente in ogni individuo, un bias che agisce anche in coloro che si riparano dietro ideali universalmente accettati. Davide Rui, 1977 Magazine
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UNIVERSI CIRCOSCRITTI 2 di Tonino De Bernardi con Giulietta Debernardi, Caterina, Tommaso, Teresa Momo, Franco, Ornella, Adelina, Chiapino, Hélène Frappat, Nathan e Francesco Cappennani, Hermine Letonde Gbedo, Rosanna Paradiso, Veronica Debernardi, Joana Preiss, Laura Flores Italia 2022 125′
“Lucio aiutami a diffondere questo UNIVERSI CIRCOSCRITTI 2, qui al Torino Film Festival, Fedeli alla linea (nel 1983 in super 8 UNIVERSI CIRCOSCRITTI). Autoprodotto, come la maggior parte dei miei film, con la Lontane Province Film. Dentro c’è il Natale, pure la Valle d’Aosta innevata e lì il teatro della nostra Giulietta e a Paris Joana Preiss mia attrice e io al Pompidou ma anche l’altra figlia Veronica (come Veronica Lake) sulle colline del Piemonte e Trieste e mio super8 DONNE, 1980… e molte altre sorprese, con una gran voglia di scoprire i mondi. Diffondi, diffondi!!, grazie… ” Ricevo da Tonino, e diffondo…
Quando respira, quando sente sulla pelle l’aria rigenerante del Monte Bianco, affacciandosi dal balcone della casa del Villair, quando pedala per il centro di Torino con la sua bici su cui per tanti anni ha messo il seggiolino per i nipoti, quando filma il mondo, il suo mondo, con la super8 o con la videocamera, Tonino De Bernardi cerca sempre di restituire la meraviglia e la profondità della vita.
Una vocazione autentica, un dovere, fare cinema equivale a scrivere poesie. Per il cineasta torinese, celebrato dal Centre Pompidou, definito «uno dei massimi, ostinati, illuminanti sperimentatori italiani», il cinema è il racconto del vissuto, reale ed inconscio, il suo cinema è amore. «Amo i sogni, sono le icone della mia mente. Compaiono sul fondo oro dei desideri e mi guardano» ha detto De Bernardi in una conversazione con Antonio Gnoli.
Quei sogni si possono vedere questa sera sul grande schermo, con il nuovo lungometraggio di questo autore umile e sublime del cinema underground, regista classe 1937 che fu notevolmente influenzato ai tempi dell’università dagli insegnamenti del musicologo e pianista Massimo Mila, con il quale diede la tesi su Stravinsky, un lavoro di 700 pagine.
Della sua ampia produzione, citiamo qui i due titoli con cui è andato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Appassionate (1999) e Médée miracle (2007). La nuova opera di Tonino si intitola Universi circoscritti 2 …
E’ in viaggio nella geografia e nel tempo della sua vita, tra campagna e città, tra Casalborgone dove ha anche insegnato come maestro, a Torino, la sua piccola Parigi, nei rapporti umani, nell’affetto per figlie, nipoti, amiche, amici. Si viaggia fino a Parigi appunto, e poi a Trieste e in Valle d’Aosta. «Si rincorre il Natale, il fare teatro e far cinema, con festa di compleanno» dice De Bernardi. «Questo ultimo lavoro l’ho fatto da solo produttivamente con la Lontane Province Film e l’ho montato con Alberto Momo. E’ un film che amo molto e che mi rappresenta totalmente, tra qui e là».
Il regista, originario di Chivasso, sta vivendo un momento molto intenso per il suo cinema. E’ al lavoro su un altro progetto, un film dedicato a due amici scomparsi, Antonio Tarantino e Paolo Gobetti, per cui è già stata realizzata la prima fase dello sviluppo con la Film Commission Torino Piemonte. Inoltre va avanti la preparazione di Primo piano-Gros plan, una coproduzione internazionale, secondo film con la star del cinema francese Isabelle Huppert, che si girerà da metà marzo in Francia e in Italia, naturalmente nel suo Piemonte.
Dulcis in fundo l’anno che verrà porta un prezioso omaggio al cinema di De Bernardi e dunque anche alla sua famiglia, che è parte integrante del suo cinema, le figlie (Giulietta è anche attrice), i nipoti, il genero Alberto Momo che recita nei suoi film e che lo assiste nella regia e nel montaggio, più o meno ci sono quasi tutti nei suoi lavori degli ultimi dieci anni… Veronica, Giulietta, Teresa, Caterina, Tommaso… Il Museo del Cinema gli dedicherà una mostra alla Mole Antonelliana e una retrospettiva al Cinema Massimo verso la fine del 2023. «Intanto giro ogni giorno con la mia camera I giorni numerati – confida De Bernardi – a partire dall’ultima settimana di gennaio quando il Pompidou mi ha riservato una retrospettiva». Guido Andruetto, La Repubblica
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IL SALE DELLA TERRA The Salt of the Earth di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado Brasile/Italia/Francia 2014 100′
Oggi quelli che furono gli esponenti migliori del Nuovo Cinema Tedesco, Werner Herzog e Wim Wenders, si appassionano ai documentari. Come II sale della Terra, dedicato all’opera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, artista e testimone del nostro tempo. E in fondo è curioso che Wenders, dopo il magnifico Pina, dove sperimentava le potenzialità del 3D, scelga ora le immagini piatte, ma dal fortissimo impatto, delle foto di Salgado. In collaborazione col figlio del quale, Juliano, il regista tedesco unisce bianco e nero e colore, immagini fisse e riprese dal vero per raccontare la biografia di Salgado e il mondo visto attraverso i suoi occhi. Roberto Nepoti, La Repubblica
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