sabato 14 Dicembre 2024, 00:08
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The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson con Adrien Brody, Anthony Quinonez, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Florian Lukas, Giselda Volodi, Harvey Keitel, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum, Jude Law, Larry Pine, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Owen Wilson, Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Willem Dafoe Germania/USA 2014 96′
Una ragazza legge un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro avvenuto anni prima, durante il quale un anziano signore raccontò a sua volta una storia. Con Moonrise Kingdom Wes Anderson ha scoperto il tempo, e ora ha deciso di usarlo come ha sempre usato lo spazio: incorniciandolo, trasformandolo in una cartolina, la cartolina ricordo di un sentimento di nostalgia. Il suo nuovo film, Grand Budapest Hotel, ha quattro decenni di storia – gli anni Duemila, gli anni Ottanta, gli anni Sessanta e gli anni Trenta – che corrispondono ad altrettanti livelli di racconto e, come matriosche, stanno uno dentro l’altro.
Il mondo di Anderson è ancora lì dove è sempre stato, in un altrove irraggiungibile in cui sarebbe bello abitare, ma in più ha la sua componente onirica, addirittura decadente. Non più il fumetto, la polaroid di famiglia o la testa di cinghiale da modernariato: le immagini di Grand Budapest Hotel sono figurine Liebig, illustrazioni da latta dei biscotti, trasferiscono nella cornice della cornice della cornice l’immagine ideale della Mitteleuropa, fasulla come già negli anni ’30 delle operette alla Lubitsch e dei film Yiddish di Ulmer; ideale e idealizzata come il “mondo di ieri” di Stefan Zweig, i cui scritti, scopro alla fine film, sono alla base del film. Ma quelli di Zweig erano i ricordi di un europeo, mentre quelli di Anderson sono i sogni di un bricoleur, americano per nascita, sradicato per vocazione, ora mitteleuropeo per vagheggiamento, o forse divertimento.
Grand Budapest Hotel è infatti un divertimento spensierato e leggero, una storia di concierge e lobby boy, di omicidi ed etichetta, di lotte per l’eredità e fughe rocambolesche, in cui Anderson si libera per una volta dal dolore attonito tipico dei suoi figli senza padri.
Tutto quello che ci si aspetta dal suo cinema, ovviamente c’è: i carrelli laterali, i carrelli in avanti, le immagini simmetriche, le scenografie disegnate, l’umorismo caustico e la rabbia che esplode improvvisa… C’è tutto. Ma ci sono anche una sana rozzezza da turpiloquio e una rappresentazione della violenza poco stilizzata che provocano una piacevole sensazione di sfasamento, non un delirio freudiano alla Maddin (il cui magnifico Carefulpotrebbe essere un modello per Grand Budapest Hotel), ma un sogno più sinistro di quello che sembra.
La doppia, triplice, anzi quadrupla cornice scelta da Anderson porta infatti così a fondo nella spirale della Storia da generare strappi di energia inattesa, con la magnifica immagine del treno fittizio di Lettera a una sconosciuta (anche quello tratto da Zweig, e non è mica un caso) che torna più volte nel film ad evocare ancora una volta il potere del cinema di plasmare il tempo e i sogni come materia concreta, e pure un po’ vischiosa.
martedì 10 Dicembre 2024, 11:31
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di Jean-Pierre e Luc Dardenne con Émilie Dequenne, Fabrizio Rongione, Anne Yernaux, Olivier Gourmet, Bernard Marbaix, Frédéric Bodson Belgio/Francia 1999 96′
È impossibile prendere le distanze da Rosetta perché la macchina da presa è sempre lì con lei, e così noi: seguiamo la sua vita, quella quotidianità fatta di azioni ripetute, semplici e mai banali, di silenzi e di respiri, di pensieri trattenuti che hanno la capacità di concretizzarsi in un gesto, estremo. La sua indomita ricerca di una normalità è il grido di ribellione di tanti giovani che decidono di vivere onestamente e di denunciare, senza paura delle conseguenze, chi si fa beffa degli altri per il proprio tornaconto. Rosetta è indiscutibilmente un film sul presente, di ieri e di oggi, che con tenacia si avvinghia alla realtà e lascia i segni di una rabbia sofferta: la protagonista si sposta incessantemente per la città per trovare un lavoro, una casa vera, un amico (Fabrizio Rongione); trascina il corpo imperturbabile della madre (Anne Yernaux) che prova a salvare da una fine rovinosa, e resta lei stessa invischiata in un fiumiciattolo fangoso perché in fondo la sua è una battaglia in solitaria contro una macchina-mostro fagocita-speranze. In questo movimento carico di fatica e frustrazione, come i sacchi di farina che la ragazza solleva per versarli nell’impasto, si inserisce un movimento leggero e misurato – momenti di felicità – che scorrono lungo una piega accennata della bocca o lungo i passi di un ballo che non si conosce.
I Dardenne, registi e sceneggiatori, avevano già avuto un riscontro internazionale qualche anno prima con La promesse, che metteva al centro sempre un giovane e la sua volontà di riscatto in un mondo di emarginati. Qui si allontanano dalle classiche convenzioni drammaturgiche offrendoci un dramma interiore alla storia stessa, attraverso un linguaggio ancora più maturo ed essenziale che non ha bisogno di artifici estetici e narrativi. Il film fa un uso parco della parola, non indugia sulla retorica né vuole esaurire un discorso che resta sospeso e che si allarga a un’intera generazione: pensiamo ad esempio all’ambiente urbano, una periferia in abbandono, descritto con pochi tratti che non permettono un’assoluta identificazione geografica. Un cinema certo del sociale che però ha solo l’ambizione di mostrare e porre interrogativi – alla fine Rosetta vince: viene assunta, ma poco dopo si licenzia; è davvero questo ciò che voleva? In questo scarto tra pubblico e privato, visione collettiva, comunemente accettata, e sguardo personale e complesso, a volte contraddittorio, sta l’autenticità di un cinema che non imita la vita ma è un tutt’uno con essa. Nel 1999 Rosetta si aggiudica la Palma d’oro, e la protagonista Émilie Dequenne il premio per la miglior interpretazione femminile; in gara c’era anche Tutto su mia madre: due film così lontani (eppure) così vicini legati inconsapevolmente da quell’uguaglianza tra arte e esistenza. Sentieri Selvaggi, Marco Bolsi
lunedì 02 Dicembre 2024, 12:45
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NUVOLE IN VIAGGIO Kauas pilvet karkaavat di Aki Kaurismäki con Kari Vaananen, Kati Autinen, Sakari Kuosmanen, Markku Peltola. Finlandia 1996 96′
Presentato in concorso nel 1996 al Festival di Cannes, Nuvole in viaggio (disponibile ora su MUBI), segnò per Aki Kaurismäki una svolta nella propria carriera, donandogli maggiore visibilità nel panorama del cinema d’autore europeo e inaugurando una strada artistica in risalita, dopo la prematura e destabilizzante scomparsa del suo attore feticcio, Matti Pellonpää. Con Nuvole in viaggio il regista addita una piaga sociale nazionale dell’epoca, quella della disoccupazione che travolse la pur rinomata Finlandia, appena entrata nell’UE con consensi unanimi per il suo welfare solo apparentemente solido.
Così l’odissea del fallimento e della frustrazione che investe i due neodisoccupati protagonisti, Lauri e Illona (Kari Väänänen e Kati Outinen), apre uno scorcio commiserevole sulle ultime sacche di povertà. Ma sempre un passo indietro dalla disperazione, nella dignità stoica e nella speranza quietamente combattiva di esclusi baciati da un raggio di luce, dopo tante beffarde sconfitte e porte in faccia.
Lauri e Illona, marito e moglie, lavorano a Helsinki come tranviere e capocameriera. Una tempesta però si rovescia sulle loro ordinarie e mansuete esistenze: il licenziamento di entrambi, rispettivamente per la chiusura del ristorante e per il taglio di personale nel settore trasporti. Entrambi al verde, iniziano una peregrinazione tra inciampi burocratici, uffici di collocamento inaffidabili, sfruttatori di disoccupati, datori di lavoro di malaffare, persino un pestaggio. Non tutto però è perduto: le nubi più scure possono viaggiare e il cielo rasserenarsi improvvisamente con un colpo di scena dietro l’angolo.
Si sorride in Nuvole in viaggio, titolo che si deve alla trascinante canzone intonata nel finale. E si sorride nonostante il senso di precarietà, il decoro perduto o sbeffeggiato, i tiri mancini del sistema capitalistico, i rovesci della fortuna. Più che per una compiuta commistione di generi, di dramma e commedia, il film si staglia per le striature ilari e dolci del susseguirsi di sfide e tonfi, per la sopravvivenza dell’amore di coppia pur nelle traversie, come in un romanzo del mondo antico. Ma, ancor di più, per l’affacciarsi di una fede nella speranza, per uno sguardo in fuori campo finalmente rivoto a un happy ending per nulla scontato.
Kaurismäki prosciuga la messinscena e la innalza a un grado di astrazione atemporale, eludendo il rischio di trappole melense, di un pietismo d’accatto, di mortificazione della forza dignitosa dei suoi personaggi. Riducendo l’adozione di primi piani a favore di campi medi, la cinepresa ingloba Lauri e Illona in spazi interni semivuoti, silenziosi e sobri, ma mai asettici, tra arredi frugali ma mai degradanti, in un manto scenografico retrò che richiama gli idolatrati anni Cinquanta, pur ancorandosi a un indefinito presente. In cromatismi blu (colore della tristezza per antonomasia) squarciati da venature purpuree opposte, Nuvole in viaggio dispiega un universo autoctono e sospeso, eppure tangibile nel suo rievocativo décor, fragrante di un impalpabile velo di sogno e romanticismo.
Se l’ironia è stata da alcuni definita come la riappropriazione di quanto è stato appena enunciato, allora Nuvole in viaggio si configura come una fiaba esistenziale dove l’ironia, quasi sommersa, viene assurta a metro di scansione della vita stessa. Se Lauri, orgoglioso, mostra alla moglie il televisore di ultima potenza appena acquistato, nella sequenza successiva, in azienda, va incontro al licenziamento. Anche per Illona il ribaltamento sornione e malevolo è sempre in agguato: dormire tutta la notte di fronte all’ufficio di collocamento non le permetterà di garantirsi al mattino allettanti offerte di lavoro, anzi. E, dopo tanta angoscia e fatica, sarà persino esoso poter ottenere da un filibustiere l’indirizzo del luogo di lavoro meno attrattivo della città.
Non c’è però accanimento verso i personaggi nello sguardo morale di Kaurismäki, che con ritmo piano e mano asciutta prende i suoi tempi per cogliere la resilienza e l’umanità sofferta ma non rinunciataria né rassegnata di Illona e Lauri, cittadini a buon diritto della galleria di coppie affiatate e stralunate inventate dal regista finlandese, da Ho affittato un killer a Le luci della sera, da Tatjana a Miracolo a Le Havre.
Tutto concorre alla compiutezza di questa commedia misurata nei toni ma traboccante di amabilità, in un incastro miracoloso di ispirazioni ed effetti contrari, dalla performance stranianti eppure empatiche di Kari Väänänen e Kati Outinen, dal taglio estetico stilizzato ma fascinoso che impregna ogni inquadratura, fino alla fede ostinata e contraria al plot che Kaurismäki ripone nel giro di vite possibile che l’esistenza, talvolta, può concedere.
Periplo minimalista di gente umile (e per questo votata a una felicità possibile) che guarda ai numi tutelari di De Sica e Bresson, parabola idealistica ma non irrealistica su una provvidenza tutta laica, aggraziato spaccato sociale su problemi economici grevi, Nuvole in viaggio è un languido tango con un accenno finale rock, un bevuta di birra di poetica malinconia, una delle folate di vento con cui Kaurismäki, da quasi quarant’anni fino a oggi con il recente Foglie al vento, spazza via orpelli e convenzioni filmiche contemporanee, per un cinema bizzarro e laconico, lucido e divertente, politico e catartico.
martedì 19 Novembre 2024, 11:43
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FARGO di Joel ed Ethan Coen con William H. Macy, Steve Buscemi, Frances McDormand, Peter Stormare, Kristin Rudrüd USA 1996 98′
1987, Minnesota: un venditore di auto ingaggia due malviventi per rapire la propria moglie e incassare il riscatto dal facoltoso suocero.
Dopo Mister Hula Hoop, i Coen tornano agli stilemi (low budget), alle architetture di montaggio (nelle sequenze più violente) e alla matrice macabro-grottesca degli esordi, senza dimenticare che, nel frattempo, hanno firmato un’opera autorale come Barton Fink: questo si ripercuote nel minor numero di movimenti della macchina da presa, nella predilezione per il montaggio interno, nello studio cromatico (in bianco), negli straordinari sguardi sui paesaggi innevati in campo lungo (da citare quello ripreso in plongée). Ancora un rapimento (Arizona Junior) e uno pseudo-fatto di cronaca grandguignolesco, ai limiti dell’incredibile, per un caustico (vendicativo?) rientro nel loro stato natio, terra d’immigrati d’origine scandinava: i due fratelli fanno satira, perfidi, sui (mal)costumi di una provincia dove forma e impassibilità hanno sempre la meglio sulla schiettezza (il focoso personaggio di Buscemi è in netto contrasto con gli abitanti della zona). Come spesso nel loro cinema, ciò che incanta è la galleria dei personaggi, con caratterizzazioni in bilico fra realismo e sua deformazione: personaggi tanto fumettistici quanto a tutto tondo, strambi e “provinciali” nel segno di Twin Peaks. Facce indelebili, dai protagonisti (Macy in primis), alle compars(at)e (i bigliettai ossequiosi; la hostess col grugno; le due puttanelle…). C’è un minaccioso gigante di cartone all’entrata della città di Fargo: i Coen lo antropomorfizzano in uno dei personaggi, l’inebetito compagno di Buscemi, simbolo, certo, di un’esistenza amara ed esecrabile ma anche contraltare dello squallore quotidiano dei “buoni e retti”, rappresentati dalla mogliettina amorevole interpretata da Frances McDormand (bravissima), che rimprovera con retorica soprappensiero il killer, finendo con un “Non capisco” che non si pone troppi problemi di capire. I Coen sembrano preferire i vissuti con spargimenti di sangue all’incubo casalingo della normalità: è l’ambiguità a fare delle loro opere dei piccoli cult. Gli Spietati, Niccolò Rangoni Machiavelli
Terzultimo film di Yasujirō Ozu, Tardo autunno è un’opera con toni da commedia, portati avanti dai personaggi dei tre maldestri strateghi di matrimoni, da cui però trapela un grande senso di tristezza legato alla separazione famigliare, agli obblighi sociali di ripristinare nuclei famigliari integri.
La Torre di Tokyo è stata costruita nel 1958: un simbolo imponente della città e della rinnovata potenza del paese nel pieno del suo boom economico. Significata anche sancire la fine delle difficoltà del dopoguerra, come racconta il film Always: Sunset on Third Street (2005) di Takashi Yamazaki. La Torre di Tokyo svetta nelle prime inquadrature di Tardo autunno, il terzultimo film di Yasujirō Ozu. Il titolo internazionale con cui il film è conosciuto, Late Autumn, non è una traduzione letterale ma rende il concetto di quello originale Akibiyori, 秋日和, parola che indica improvvise belle giornate d’autunno dopo un periodo di brutto tempo. La Torre di Tokyo è vista in una serie di inquadrature, a cominciare da una dove è sullo sfondo di alberi con ancora poche foglie, nel loro aspetto autunnale. Con la sua architettura reticolare diventa una nuova immagine di quell’estetica dei grovigli di acciaio con cui il cineasta racconta la vertiginosa modernità del paese. Una metropoli sempre più moderna e occidentale quella raffigurata in Tardo autunno, in cui i classici locali e ristorantini dove si svolgono momenti conviviali, passaggi narrativi importanti, portano insegne occidentali, bar Luna, bar Carmen, bar Blow, bar Arrow così come il negozio da golf che si chiama Green Golf; e dove si vedono ancora una volta prodotti o pubblicità di marchi occidentali, Coca Cola, Johnnie Walker. E tra i giovani giapponesi impazzano il rockabilly ed Elvis, come osservano sconcertate due signore nel film.
Ancora una volta nel cinema di Ozu è centrale la famiglia monca, con un vuoto generato dalla perdita di qualche congiunto. Lo è la famiglia Miwa, delle protagoniste Akiko e Ayako, madre e figlia, il cui padre/marito è mancato da sette anni. Anche il professor Hirayama, pretendente di Akiko, è vedovo, mentre Goto, che si sposerà con Ayako, ha perso la madre quando era piccolo in un giorno d’autunno. Raccomanda alla ragazza di non litigare con la madre, situazione che per lui è occasione di un enorme rimpianto. Infine, Yukiko, collega e amica di Ayako, dice di avere una matrigna. Le simmetrie narrative del cinema di Ozu qui raccontano di un’esigenza sociale a riempire i buchi e ricostituire la famiglia tradizionale sostituendo quel membro che sia venuto a mancare. Ozu, che non si è mai sposato e che ha sempre vissuto con la madre, racconta dell’affetto tra Akiko e Ayako, della loro vita insieme dopo la scomparsa del marito/padre, e della tristezza della loro, quantomeno forzata, separazione.
Ancora una volta nel cinema di Ozu è centrale il conflitto tra la mai estinta usanza del matrimonio combinato, detta miai-kekkon, e il matrimonio d’amore. Uno dei tre ex-compagni è contrariato per un momento di crisi coniugale della figlia, nonostante lei abbia scelto il marito per amore. Ayako comincia a convincersi del matrimonio con Goto solo dopo averlo incontrato di persona, momento in cui scatta una scintilla, mentre in precedenza aveva escluso il connubio a scatola chiusa, con lui come con chiunque altro. Evitava ogni proposta perché stava bene con la madre, perché avrebbe allungato la primavera della propria vita, consapevole che avrebbe cambiato idea solo se innamorata. La paura per il matrimonio è condivisa con la collega Yukiko. Le due, guardando dalla terrazza del palazzo del loro ufficio un paesaggio urbano (posizionate con effetto sojikei) che contempla, oltre al solito treno un autobus che lo affianca, fanno i commenti su una collega che è convolata a nozze senza invitarle al rinfresco, osservando come il matrimonio conduca a isolarsi e a separarsi dagli affetti di prima. Ayako poi è fortemente contrariata quando crede che la madre intenda risposarsi, perché reputa ciò un tradimento al defunto padre. Ancora il professor Hirayama, incalzato da Yukiko nel momento in cui è certo di risposarsi con Akiko, promette di amare la futura moglie per sempre. «Amore e matrimonio dovrebbero coincidere», afferma Ayako pranzando con uno dei tre che la vorrebbero sistemare. «Ma se non succede, non è la fine del mondo. Amare qualcuno è già abbastanza. Non c’è bisogno di sposarsi», aggiunge, sottolineando la differenza di vedute dei giovani con le vecchie generazioni.
Il rapporto amore/matrimonio combinato si incrocia e riflette sull’antinomia vita/morte che pervade tutto il film. Tardo autunno comincia con una celebrazione buddhista dell’anniversario di una morte, dove si trovano pressoché tutti i personaggi, improntata alla serena rassegnazione giapponese, in un tempio sui cui muri si riverberano le onde di un vicino corso d’acqua, immagine della fragilità e dell’impermanenza della vita. E il film si conclude con un pomposo matrimonio dove aleggia un’atmosfera triste e funerea. Avere una bella moglie accorcia la vita: è una battuta che fanno i tre buontemponi, mentre Akiko si convince della necessità che la figlia convoli a nozze perché, come lei, ha tutta la vita davanti. E ciò quando pressoché ogni personaggio si porta dietro il lutto di un congiunto.
«La vita è semplice ma ci sono persone che riescono a complicare le cose»: è una perla di saggezza che esce dalla chiacchierata finale dei tre cospiratori pasticcioni, che brindano pensando di aver raggiunto l’obiettivo. Tra le persone complicate c’è sicuramente lo stesso regista, che costruisce un’opera dalla complessa architettura visiva e narrativa, con le solite specularità ed ellissi. Ci sono ancora gli effetti sojikei, ovvero le immagini dove due personaggi compiono gli stessi movimenti, tra cui quello di due dei tre anziani al tavolo di un bar che, imbarazzati, agitano alla stesso modo le pipe che appartenevano al loro vecchio amico, donate loro da Akiko e Ayako come a preparare quel momento. Simmetrie, specularità e collegamenti sono anche con altri film di Ozu, all’interno di una filmografia che funziona come un macrotesto dove ogni pellicola occupa un tassello. Tardo autunno funziona come una nuova versione di Tarda primavera, cambiando il sesso del genitore vedovo e facendo passare l’attrice Setsuko Hara da figlia a madre. I due film sono in realtà tratti da due romanzi diversi, il primo cronologicamente di Kazuo Hirotsu, il secondo di Ton Satomi da cui Ozu aveva già tratto Fiori d’equinozio. I punti in comune tra i due film sono sicuramente tanti così come con Il gusto del sakè o C’era un padre. I tre signori evocano spesso la loro giovinezza, quell’epoca in cui non avevano molti soldi ma tanta allegria. Tutti e quattro corteggiavano la bella Akiko: il loro defunto compagno è stato quello che l’ha spuntata conquistandola e sposandola, peraltro già, evidentemente, con un matrimonio d’amore. Qui Ozu richiama espressamente il suo cinema degli anni Trenta, in una memoria, e in una nostalgia, autoriflessive. Film come Anche se non sono riuscito a laurearmi…, Dove sono finiti i sogni di gioventù?, i cui protagonisti e le situazioni poterebbero esseri gli stessi di Tardo autunno da giovani. E Ozu guarda anche al cinema americano: da una nota dei suoi diari, datata 10 febbraio 1960, si apprende che si è ispirato per il copione al western di John Ford, I tre furfanti, dove tre simpatici fuorilegge organizzano il matrimonio per una ragazza il cui padre è stato ucciso.
Se nel 1960 la Torre di Tokyo, edificata due anni prima, era un faro di ottimismo per il progresso della nazione, quell’anno fu particolarmente turbolento per il paese. Era già iniziato il “Sessantotto”, ben prima che nel resto del mondo, con le violente proteste Anpo, contro il trattato nippo-americano. Ovunque nel paese si verificavano scontri violenti tra manifestanti e polizia, con vittime, mentre si susseguivano gli scioperi come quelli dei minatori. Il leader socialista Asanuma fu assassinato da un giovane fanatico di estrema destra. Mentre Ozu raccontava della fine di un sistema di valori tradizionali, la sua stessa casa di produzione, la Shochiku, produceva Notte e nebbia in Giappone, di un giovane regista arrabbiato, Nagisa Ōshima, che rifletteva il clima turbolento di quel momento. Anche un tipo di cinema classico era ormai arrivato nel suo tardo autunno.