SOLARIS
martedì 13 Maggio 2025, 10:34
Filed under: Cinemapiù 47

Soljaris
di Andrei Tarkovsky
con Natalya Bondarchuk, Donatas Banionis, Yuri Charvet, Jüri Järvet, Vladislav Dvorzhetskiy
URSS   1971   165′

In principio era Panthalassa. Tutto è acqua, e questo enorme oceano è materia e mente. Questo oceano composto da una strana sostanza gelatinosa, torbida e collosa, è Solaris.
Furono forse queste le prime riflessioni che mossero lo scrittore polacco Stanslaw Lem a scrivere nel 1961 Solaris, dal quale il regista russo Andrej Tarkovskij trasse l’omonimo lungometraggio del 1972 (un altro, di produzione americana e con la regia di Steven Soderbergh, verrà tratto dal romanzo nel 2002, ma modificandone e impoverendone la trama).

Il film di Tarkovskij, che vinse il Gran Prix Speciale della Giuria al 25° Festival di Cannes, fu portato in Italia nel 1974, privo dell’abbondante prima sezione, antecedente la partenza del protagonista e con dialoghi snaturati rispetto all’originale. Tali scelte avevano l’obiettivo di “snellire” la pellicola per il pubblico italiano. Al di là di queste spiacevoli vicende, i cinefili italiani possono ad oggi fruire dell’edizione integrale con audio in russo sottotitolato.

In un imprecisato futuro, coerente con la corsa allo spazio perseguita da Stati Uniti e URSS negli anni Sessanta e Settanta, gli scienziati russi scoprono un pianeta al di là del sistema solare: esso appare come un enorme oceano, e viene battezzato Solaris. Nasce così la solaristica, ovvero quel ramo della scienza astronomica e astrofisica che si occupa di studiare il nuovo corpo celeste.
All’avvio della vicenda la solaristica è già una scienza in declino, poiché non è stata in grado di assolvere al proprio compito. Kris Kelvin, il protagonista, è l’uomo a cui l’umanità si affida per decretare la sorte della stazione spaziale in orbita intorno Solaris; egli è inviato in orbita per accertare l’avanzamento delle ricerche e per decidere se queste siano o meno un buco nell’acqua.

Il lungo antefatto che ne precede la partenza – inserito da Tarkosvkij e non presente nel romanzo – ha il compito non solo di presentare le intenzioni di Kelvin (porre fine agli studi della stazione spaziale), ma anche di mostrarci gli eventi che molti anni prima avevano coinvolto altri scienziati e militari sul pianeta misterioso. La registrazione della testimonianza presentata da Berton, amico del padre di Kelvin che aveva partecipato a una missione di salvataggio su Solaris, funge da flashback: l’uomo, interrogato da una commissione, racconta di strani avvenimenti e visioni, di figure e corpi che ha visto emergere dal mare denso e ribollente. Quasi nessuno sembra aver fiducia nel suo rapporto, che viene etichettato come allucinatorio.
Queste le stranianti premesse al viaggio spaziale di Kelvin. Ma Solaris non è un thriller fantascientifico: Tarkovskij sfrutta la trama per elaborare questioni non solo gnoseologiche, ma anche psicologiche ed esistenziali.

«È l’uomo a rendere immorale la scienza» 

La stazione spaziale è, innanzitutto, il luogo in cui gran parte della vicenda si svolge: essa rappresenta il limite (inteso come limes, confine tra il conoscibile e l’inconoscibile) della conoscenza umana, di cui è baluardo inefficace, così sospesa sopra quella materia sconosciuta e misteriosa; essa può essere interpretata anche come il limite dell’umanità stessa, luogo immaginario in cui gli uomini sono costretti a confrontarsi con se stessi, con il loro passato e con ciò che umano sembra non essere.
Centrale, in Solaris, è dunque il tema della conoscenza e, di conseguenza, dello strumento che l’uomo utilizza per conoscere: la scienza, con il metodo che ne consegue. E proprio l’approccio scientifico, con i suoi presupposti materialistici, meccanicistici e razionalistici, è presentato come insufficiente agli scopi della solaristica. Risulta impossibile comprendere con gli strumenti a disposizione il funzionamento di Solaris; le strumentazioni di cui dispongono gli scienziati sono utili soltanto alla distruzione (si pensi al nichilizzatore messo a punto da Sartorius), e la possibilità di una scienza che sia etica e non soltanto un’irrefrenabile sete di conoscenza è questione che emerge sin dal confronto tra Berton ed il protagonista. L’atteggiamento di una scienza meramente assetata di conoscenza, incapace di equilibrare i mezzi con il fine, è esplicitato nel personaggio di Sartorius, che incarna l’atteggiamento eccessivo proprio dell’uomo assetato di Verità, a tal punto da essere disposto a distruggere ciò che non è in grado di comprendere.

Da un lato si pone dunque il metodo di una scienza priva di morale, incarnato appunto da Sartorius, il cui fine (e idolo) è «la verità scientifica, la sola», per giungere alla quale ogni mezzo diviene lecito, anche la distruzione stessa dell’oggetto di studio. L’incomprensibile mostra la limitatezza dell’uomo e delle sue capacità, e l’essere umano, che secondo Sartorius «è stato creato dalla natura per conoscerla» (implicando lo studio approfondito della natura quale missione propria dell’umanità), deve essere disposto ad ogni mezzo per tale missione. È inoltre interessante notare come sia la questione dell’immortalità ad attrarre Sartorius: l’immortalità degli ospiti in grado di rigenerarsi. Impossibilitato per natura a possedere quel potere, incapace di comprenderne la radice, desidera eliminare il problema stesso creando il nichilizzatore. In tal senso la stazione orbitante si presenta anche come un mondo alla rovescia, dove gli uomini non riescono ad abituarsi all’immortalità degli ospiti e non vi aspirano, ma la rifuggono poiché stravolge completamente la loro conoscenza del mondo e di se stessi.
Dall’altro lato vi è, invece, una scienza mossa dalla morale, da uno scopo connotato da umanità in senso emotivo, che tenga conto del dolore che i metodi della ragione, per seguire la verità, procurano. Kelvin non è infatti disposto a sezionare l’immagine della moglie, sebbene consapevole della sua immortalità, poiché non accetta che durante l’operazione possa provare dolore.

Il tema del dolore, inoltre, ritorna in una delle scene principali, come connotazione propria di ciò che è umano. Se Kelvin si lascia trasportare dalle emozioni – come inizialmente aveva sostenuto di non poter fare («non posso lasciarmi condurre dai sentimenti. Non sono un poeta. Ho uno scopo») – e trascura la sua missione di scienziato, Snaut incarna forse la via di mezzo tra i due: desideroso di conoscere, di avere un contatto con Solaris, e disposto a trascorrere la vita intera sulla stazione orbitante, non è tuttavia pronto a soluzioni estreme, facendosi dunque portatore dell’idea che permetterà una sorta di collegamento con il pianeta. Snaut, inoltre, consapevole della deriva meccanicistica, impersonale e formale della scienza contemporanea, non si trattiene dall’esprimere rimpianto per l’abbandono da parte dell’uomo della visione mitologica del cosmo: «abbiamo perso il senso del cosmico. Per gli antichi era più accessibile, lo accettavano come mito e lo vivevano come tale». La citazione che egli fa del mito di Sisifo non è casuale: è forse la scienza, come l’intero agire umano, una costante, faticosa ripetizione senza possibilità di successo?

«Perché andiamo a frugare l’universo quando non sappiamo niente di noi stessi?»

Il tema della conoscenza non viene declinato solamente verso l’esterno, bensì anche verso l’interiorità: il busto di Socrate, presente in molteplici inquadrature delle scene in biblioteca, non può che rimandarci al celebre motto gnoqi sauton, conosci te stesso, che è l’altro motivo centrale della pellicola. Il tema della conoscenza di sé è elaborato principalmente nei due personaggi principali, Kris Kelvin e la moglie Hari. Kelvin deve conoscere se stesso attraverso una riappacificazione con il passato e con sentimenti che aveva escluso in quanto incomprensibili, ma che ora, ripresentandoglisi, gli concedono una seconda opportunità. La domanda che Hari gli pone («ti conosci?») e la sua risposta («come ogni essere umano») risulta ironicamente drammatica alla luce delle conclusioni cui il film stesso ci conduce: l’individuo può davvero conoscersi? Kelvin giunge a un’elaborazione dell’amore che prova verso la moglie, sebbene rispetto a lei il suo atteggiamento appaia più votato a un’egoistica occasione per rimediare agli eventi passati, finiti in tragedia.
Hari, invece, in quanto simulacro è priva di identità: deve conoscersi poiché non si ricorda (nel senso propriamente riflessivo del verbo, ricordarsi). Davanti a una foto che la raffigura non è in grado di riconoscersi, poiché non ha un’identità. L’identità che va cercando non le è disponibile in quanto mancante delle esperienze che comportano la formazione di un individuo. È, emblematicamente, davanti allo specchio che Hari è lentamente in grado di ricollezionare frammenti di un passato che è sì suo, ma non le appartiene. Presa coscienza del suo status di copia, percorre due vie parallele: da un lato si dispera (sa che l’amore tributatole da Kelvin non è rivolto a lei, bensì alla donna di cui è simulacro); dall’altro intraprende un percorso di umanizzazione che la porta a diventare se stessa (come Kelvin le testimonia quando ammette «le somigliavi, ma ora sei tu la vera Hari»). In qualche modo diventa se stessa vivendo e soffrendo. La sua umanità e il suo amore per Kelvin, tuttavia, finiscono per esprimersi in un’eterna ripetizione del tragico: come la donna dal cui ricordo è venuta al mondo, la nuova Hari decide di suicidarsi, consegnandosi all’annichilitore di Sartorius; non più, però, per dolore, bensì questa volta per amore. Non è chiaro se questo implichi una sorta di necessità che guida la vita di ogni individuo (nel caso di Hari la necessità, per tutte le volte che vivrà, di giungere al suicidio), o se questo atto non fosse nel secondo caso dato dalla sola consapevolezza di non essere realmente umana e di non poter tornare sulla Terra con Kelvin.
Il personaggio di Hari, oltre a essere la prova tangibile del potere di Solaris, è anche quello che più si dimostra umano, in grado di comprendere se stesso e gli uomini, e di soffrire. È il tema dell’inumano che si umanizza tramite l’amore ed il dolore, e che si contrappone alla figura di Sartorius, uomo disumanizzato incapace di vedere in Hari alcunché di umano, poiché non terreste, poiché materialmente differente. È tuttavia proprio l’inumano a far da specchio all’uomo: «proprio perché siete umani vi comportate così. Perché siete uomini litigate». Quello specchio citato da Snaut, vero portatore del messaggio tarkovskijano: l’uomo desidera la conoscenza assoluta, ma per ottenerla deve portare tutto a un livello umano, ridurre tutto, il macroscopico – il cosmo – e il microscopico – il Sé – alle proprie possibilità di conoscenza: «Noi non vogliamo affatto conquistare il Cosmo. Noi vogliamo allargare la Terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di uno specchio. […] L’uomo ha bisogno solo dell’uomo».

Culmine teoretico del film è senza dubbio l’incontro dei personaggi nella biblioteca. Sotto gli occhi degli elementi che tradizionalmente caratterizzano la conoscenza umana (libri, sculture, strumenti musicali, dipinti e maschere, tutti simboli delle diverse declinazioni e delle diverse forme in cui la conoscenza umana si è espressa) i protagonisti dibattono sulle loro posizioni. Quale sia il ruolo della scienza; che cosa sia più proprio dell’uomo, se la sete incondizionata di conoscenza – presentata da Sartorius – o l’accettazione, seppur piena di dubbi, del mistero dell’inconoscibile che ci muove però all’amore – incarnato da Kelvin. Le domande che sorgono sono molteplici: la conoscenza umana è davvero sconfinata? Esiste l’inconoscibile?
Sono forse le parole di Kelvin nel finale a illuminarci sulla prospettiva che Tarkovskij vuole assumere: «per conservare le semplici verità umane ci vogliono i misteri. Il mistero della felicità, della morte, dell’amore».
È allora l’accettazione dell’inconoscibile in quanto tale, di ciò che c’è ma cui non sappiamo dare una causa e una descrizione analitica, qualcosa che non va eliminato, bensì mantenuto, e che faccia in qualche modo da garante proprio per le verità scientifiche a cui tanto aneliamo.

Un oceano di neutrini

Il vero protagonista nascosto dell’intero lungometraggio resta indubbiamente il pianeta, Solaris. L’incapacità della scienza di comprenderne i segreti non ci impedisce di definire Solaris come una vera e propria res cogitans, una sostanza cosciente in grado di interagire e rispondere con la coscienza umana che cerca di lambirne l’essenza. Solaris reagisce agli stimoli cui è sottoposto dando vita a elementi nascosti nelle coscienze degli abitanti della stazione spaziale. È in grado di concedere la propria materia, i neutrini, e il proprio campo magnetico per la stabilità delle figure che popolano i ricordi e le menti degli uomini. Il viaggio verso la stazione e le vicende che vi prendono luogo ricalcano abilmente il mito, quel mito che da Odisseo a Edipo descrive l’uomo come un insaziabile cercatore di risposte, tanto sul mondo quanto su se stesso. La solaristica incarna questo desiderio di comprendere l’incomprensibile che sta dentro e fuori di sé.

Nel finale, indubbiamente ad effetto, ritorna anche un altro topos del mito: il nostos, il ritorno del protagonista a casa dopo aver viaggiato nel cosmo e in se stesso, con tanto di cane che lo riconosce, similmente a quanto Argo aveva fatto con Ulisse. Ma la possibilità di Kelvin di riabbracciare il padre è in verità preclusa (ancora prima che Kelvin partisse per Solaris si intuisce da un dialogo con il padre che il protagonista non tornerà prima della morte del genitore): è dunque l’ennesima creazione di Solaris che ci viene mostrata. La soluzione trovata dal professor Snaut per entrare in contatto con il pianeta è stata quella di inviargli l’encefalogramma di Kelvin. In tal modo, sembra che l’oceano pensante abbia potuto conoscere approfonditamente la coscienza di Kelvin e dar vita a isole dove i pensieri e i desideri del protagonista prendono forma: possiamo immaginare che Kelvin provi nostalgia della Terra e desideri incontrare di nuovo il padre; è dunque Solaris a soddisfare questo desiderio. Appare un’isola sperduta in questo oceano misterioso in cui la materializzazione del desiderio di Kelvin si fa realtà, dove una piccola dacia prende forma nel cosmo per realizzare un desiderio irrealizzabile.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire. Il film di Tarkovskij è indubbiamente una pietra miliare del cinema che non smette di far sorgere interpretazioni, incapaci di rispondere pienamente a tutte le domande che suscita. Ma proprio per questo merita di essere visto e rivisto.
Federico Fornasino

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INTO THE WILD – NELLE TERRE SELVAGGE
lunedì 05 Maggio 2025, 11:15
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into the Wild
di Sean Penn
con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian H. Dierker
USA   2007   148′

Into the wild è la libera trasposizione del libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” diventato un classico della sottocultura urbana. Dalla lettura del libro, Sean Penn ha dovuto aspettare ben dieci anni prima di ottenere i diritti. Questa incredibile pazienza testimonia una testarda sensibilità che è unica nel panorama cinematografico di oggi.
Sono due gli elementi che hanno guidato Penn nel doppio binario della regia e della sceneggiatura. Il tema della fuga ma soprattutto quello dell’inseguimento di un qualcosa che faciliti la conoscenza di sé.
Pura celebrazione della libertà e della ricerca della libertà, la pellicola racconta la vera storia di Christopher McCandless, un giovane benestante che rinuncia a tutte le sue sicurezze materiali per immergersi all’interno della natura selvaggia. Il forte trasformismo di Emile Hirsh facilita per lo spettatore un’istantanea immedesimazione in una figura tormentata che non viene dipinta né come giovane avventuriero né come idealista ingenuo. La maestria con cui Penn miscela tematiche così diverse e complesse è unica. Il fascino della selvatichezza dell’ambiente, le difficoltà dei legami di sangue, l’individualismo contro il bisogno di amore e le contraddizioni dell’idealismo nelle sue spinte critiche ma anche arroganti.
Il film ha una valenza politica nonostante questo non sia l’intento di base. Alle volte, si trasforma in un vero e proprio atto di fede il cui credo fugge da tutto ciò che è religioso in senso stretto per trovare sfogo in una dimensione che è solo e unicamente personale. Tutti le persone che Chris incontrerà lungo il suo peregrinare oltre a colmare un vuoto familiare, fonte di profonde sofferenze, amplificano l’idea di un percorso a stadi funzionale a liberarsi da qualsiasi dipendenza da ogni tipo di comfort e privilegio. L’acquisizione della saggezza avviene quasi per osmosi attaverso la spontaneità e la profondità degli incontri fatti.
Ancora più maturo e disinvolto nel lavoro registico, Penn gioca di forti contrasti nell’alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati al costante senso di vuoto del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell’enormità della natura.
MyMovies, Matteo Signa

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LA MONTAGNA SACRA
lunedì 14 Aprile 2025, 10:10
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The Holy Mountain
di Alejandro Jodorowsky
con Alejandro Jodorowsky, Horacio Salinas, Zamira Saunders, Valerie Jodorowsky, Ana De Sade
USA   1973   115′

Guardare un film di Alejandro Jodorowsky non è un’operazione semplice. Innanzitutto, significa entrare nella mente del suo autore, scoprire la sua personale visione del mondo e dell’uomo. In secondo luogo, significa entrare in contatto con uno stile registico imprevedibile, surreale ed estremamente simbolico. Nel caso de La montagna sacra(1973) è necessario in tal senso compiere un grande sforzo dal punto di vista spettatoriale per comprenderne a fondo lo sviluppo e le ragioni, ma una volta svelato ciò che si cela al di là della mera apparenza diventa presto evidente il perché sia considerato il magnum opus del regista franco-cileno.

Volendo individuare una struttura al film, la trama può essere suddivisa nei classici tre atti, sebbene le regole tradizionali della narrazione vengano di fatto completamente sovvertite. Nella prima parte de La montagna sacra, Jodorowsky ci mostra il progressivo superamento dalla propria condizione di dissoluzione di un personaggio chiamato il ladro che assomiglia molto a Gesù Cristo. Dopo una serie di disavventure (come nel caso di alcune figure apparentemente religiose che lo inducono ad ubriacarsi per poi creare dei modelli di cera del suo corpo inerme raffigurante la crocifissione), il ladro raggiunge una torre nel quale risiede un alchimista, interpretato da Jodorowsky stesso. Nella seconda e nella terza parte del film, l’alchimista introduce al ladro alcune delle figure chiave che lo accompagneranno nel viaggio verso la cosiddetta montagna sacra, un luogo che potrà garantire loro l’illuminazione spirituale.

A giocare un ruolo fondamentale ne La montagna sacra sono lo strumento dei tarocchi, e nello specifico i tarocchi marsigliesi. «I tarocchi ti insegneranno a creare un’anima»: nel corso della sua preparazione, il ladro impara dall’alchimista alcune delle proprietà fondamentali di questi strumenti, che vengono di fatto presentati come simboli capaci di determinare con precisione l’essenza di ciascuna delle persone con le quali si recherà alla montagna sacra. Proprio il ladro ad esempio rappresenta la carta de Il Folle, che come spiega il regista stesso simboleggia la libertà totale, l’assenza di limiti e definizioni. La visione di Jodorowsky dell’arte dei tarocchi si allontana dalla concezione popolare e si avvicina al loro uso reale, dove il misticismo incontra l’introspezione psicologica: il tarocco come linguaggio ed espressione del presente, in grado di connettere il tutto attraverso «la danza della realtà», nella quale «il mondo danza attorno a te e ti dà ciò che cerchi».

In tal senso, La montagna sacra è il racconto e la messa in atto di un processo di superamento del Sé. Il ladro si allontana gradualmente dalla propria concezione di sé, rifiutando non solo di identificarsi nella figura che sembra determinarlo fisicamente, Gesù Cristo, ma anche abbandonando il proprio statuto attuale. L’alchimista trasforma gli escrementi dell’uomo in oro, mostrandogli l’effettiva possibilità di un cambiamento in positivo. Nel momento in cui l’alchimista intima al ladro di osservare se stesso in uno specchio, quest’ultimo reagisce infrangendo lo strumento proprio con l’oro, non accettando la realtà dell’immagine e accettando così l’invito dell’alchimista.

L’obiettivo del gruppo di persone unite dall’alchimista, lo scalare la montagna sacra verso la conoscenza dei segreti del mondo, pertanto non può che essere perseguito se non con il rifiuto della propria immagine di sé, rappresentato ulteriormente dalla necessità di questi di bruciare delle copie in cera dei loro corpi. In continuità con il frequente ricorso all’immaginario religioso (non solo cristiano, ma universale), La montagna sacra si presenta dunque come un discorso che critica aspramente l’idea di religione intesa come un prodotto soggetto a controlli esterni rispetto alle singole individualità. La ricerca dell’essere e del suo significato è personale e passa solamente dall’uomo, rifiutando riduzioni istituzionalizzanti (che per Jodorowsky conducono solo alla violenza) e la costruzione di immaginari artificiali.

L’arrivo del gruppo presso l’isola dei Lotofagi, nella quale si trova per l’appunto la montagna sacra, rappresenta prima di tutto l’incontro con quelle figure che si sono perse nella materialità e non sono riuscite ad avvicinarsi alla verità. L’abbandono della sofferenza, per Jodorowsky, deve essere perseguito non solo nel rifiuto della propria immagine, ma anche del vizio. Solo in questo modo, insieme alla sconfitta delle proprie paure più intime e radicate, si potrà raggiungere la tanto ambita verità assoluta: l’assenza di ogni verità. Per poter così, tornare alla realtà.
Daniele Sacchi

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L’ESTATE DI KIKUJIRO
lunedì 07 Aprile 2025, 10:14
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Kikujirô no natsu
di Takeshi Kitano
con Takeshi Kitano, Yusuke Sekiguchi, Kayoko Kishimoto, Kazuko Yoshiyuki, Yuko Daike, Beat Kiyoshi, Great Gidayu, Rakkio Ide, Nezumi Mamura, Fumie Hosokawa, Akaji Maro
Giappone  1999   116′

Takeshi Kitano
Kitano è di estrazione sociale povera, è nato nel 47, il padre ha lasciato la famiglia quando lui era ancora piccolo e con la madre e i suoi tre fratelli è cresciuto in quartiere povero di Tokyo, Sanju, frequentato dalla yakuza. Questa infanzia così originale lascia un segno importante nella sua vita, un’esperienza che sarà materiale per le sue future sceneggiature.
Si iscrive all’università, ma non la porta a termine, in quanto è più interessato alla carriera di comico. Siamo agli inizi degli anni ‘70 e trova lavoro in un cabaret Tokyo, il Français, nel quartiere di Asakusa. Una sera si ritrova a rimpiazzare la spalla di un comico. Qui comincia la sua gavetta. Qualche tempo dopo, con l’amico Kaneko Kyoshi forma il duo Two Beats con il quale ha un discreto successo che lo porta a frequenti apparizioni televisive. In breve tempo diventa un volto molto popolare, tanto che il regista Nagisa Oshima gli affida un ruolo in Furyo (1983), film con David Bowie e la famosissima colonna sonora di Sakamoto. Ingaggiato per il ruolo di protagonista nel film Violent Cop (siamo nel 1989) ne prende in mano la regia facendo un lavoro di rinnovamento del genere noir e del yakuza eiga come nessuno aveva mai fatto. Riduce i dialoghi all’essenziale, toglie espressività agli attori, semplifica le inquadrature e mostra gli effetti degli eventi prima delle loro cause.

Queste saranno le caratteristiche di tutti i film a seguire  che Kitano realizzerà e che troveranno espressione più alta prima in Sonatine (1993) e poi in Hana-bi (1997).
La maturità la raggiunge proprio con Hana-bi dove il protagonista è un personaggio romantico e violento al tempo stesso, un anti-eroe esistenzialista che sa essere senza pietà verso i criminali ma protettivo e premuroso verso sua moglie.
Da questo punto in poi della sua carriera Kitano mette in scena storie in cui c’è una maggiore consapevolezza verso il valore della vita, cosa che non si era vista, per esempio,  in Sonatine (emblematico ne è il finale). Sicuramente ad aver inciso su questa evoluzione espressiva è stato il grave incidente di moto del 1994 col quale aveva rischiato di morire.

L’estate di Kikujiro
E’ il primo film dopo il successo internazionale e il Leone d’oro di Hana-bi. Kitano si rinnova ancora una volta, probabilmente attingendo al suo talento comico, e mette in scena un’opera inattesa. Un ritorno, dopo due anni, che sa fare ironia di quanto aveva realizzato fino a quel punto, che sposta ancora di più l’attenzione sul lato umano di un personaggio burbero e rozzo.
La storia è quella di un road movie, un adulto che accompagna durante le vacanze estive un bambino che vuole incontrare la madre che non vede da molto tempo.
Sebbene il bambino in questione sia il protagonista del film, la storia ha senso grazie a Kikujiro, il suo accompagnatore. (E qui capiamo perché il titolo del film  è l’estate di Kikujiro e non l’estate di Masao). E’ una scelta interessante quella che fa Kitano: perché permette di spostare l’attenzione su un personaggio che in effetti rende unico questo film: uno scansafatiche, forse uno yakuza, che non sa relazionarsi con nessuno tranne dando degli ordini e che spende tutti i suoi soldi in scommesse, donne e alcool. Un personaggio negativo ma che dietro questa apparenza così dura ha una forte sensibilità e che non esita a aiutare e difendere il piccolo Masao nei momenti più difficili del loro viaggio.

E lo aiuta veramente, per ben due volte nel corso del film: sono i due punti di svolta della sceneggiatura, le due volte in cui il bambino piange. Farà per lui qualcosa che sicuramente non ha mai fatto per nessun altro, intrattenendolo con siparietti comici, arrivando addirittura a coinvolgere altri personaggi, in giochi di un’originalità unica.
E’ un incontro di due solitudini, forse anche un po’ scontato per un film di viaggio, ma che funziona narrativamente benissimo. Il bambino, d’altronde, è solo come Kikujiro: vive con la nonna e non ha mai conosciuto veramente sua madre. I suoi amici sono tutti in vacanza. Di Kikujiro sappiamo ben poco ma capiamo che la sola persona che ha accanto è la sua compagna.
Kitano ha dichiarato che il vero soggetto di questo film è la timidezza. Nonostante il carattere forte e burbero, è la timidezza che gioca un ruolo importante, che blocca Kikujiro e che gli impedisce di sapere come relazionarsi con Masao (ma anche con il resto della società). Nella sua parabola umanizzante, Kitano ci fa amare, nonostante i suoi molteplici difetti, questo personaggio.

Il film è diviso in episodi, presentati ognuno come le pagine del diario di un bambino, o di un libro per ragazzi. I colori sono quelli dei pastelli di Masao; le musiche di Joe Hisaishi hanno motivi leggeri e fischiettabili. Kitano voleva infatti girare un film diverso dopo Hana-bi, in cui lasciare la violenza fuori campo e parodiare la figura dello yakuza senza pietà.
Gli altri personaggi che i due incontrano durante il loro viaggio non sono lo stereotipo del giapponese medio, sono outsider: un poeta nomade, due bikers, una coppia di fidanzati senza meta. Grazie a loro Kikujiro metterà in atto il gioco a cui il bambino avrebbe dovuto partecipare con i suoi amici e potrà sognare situazioni fantastiche da teatro delle marionette.
La spiaggia, il mare, ancora una volta diventa il luogo in cui ripararsi, riflettere, ricominciare e lo vedrete anche negli altri film di Kitano, Sonatine e Hana-bi su tutti. Con il mare coprotagonista ha poi girato un film intero, Silenzio Sul mare.
Kitano è come il titolo del suo film più celebre, Hana-bi: fiori e fuoco, poesia e violenza; ma per questa volta ha dato prevalenza alla poesia.
Mattia Garofano

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MULHOLLAND DRIVE
martedì 01 Aprile 2025, 10:36
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di David Lynch
con Naomi Watts, Jeanne Bates, Laura Harring, Robert Forster, Brent Briscoe
Francia/USA   2001   145′

Quando si parla di Mulholland Drive, tutti hanno una propria soluzione. È tutto un sogno, è un viaggio tra realtà parallele che si sovrappongono, è l’ennesima opera incomprensibile di un pazzo a cui han rifilato una macchina da presa… tutto vero, tutto falso. Sarà scontato dirlo, ma Mulholland Drive è un film che più di altri necessita della partecipazione dello spettatore, della sua completa attenzione, della sua esperienza per ottenere significato. Insomma, Mulholland Drive è un film interattivo. Siamo dalle parti delle care, gloriose, avventure grafiche degli anni ’90, dove la storia ha un inizio e una fine prestabiliti; ma come percorrere questa strada spetta totalmente al giocatore. Lo suggerisce David Lynch stesso: «Alcuni hanno uno spirito letterale e temono le astrazioni. Si sentono perduti. Vogliono che 2 + 2 = 4. Ce ne sono altri, più intuitivi, che non domandano di meglio che perdersi. Quelli si concedono all’esperienza e arrivano a 4 attraverso altri percorsi». (David Lynch intervistato su Positif n. 490, dicembre 2001).

In Mulholland Drive non abbiamo pulsanti da premere, oggetti da cercare o linee di dialogo da pronunciare, il nostro compito è trovare una via per la soluzione finale, che in realtà, per quanto riguarda almeno la fabula, non è così intricata come sembra. La bionda Diane (Naomi Watts), con i soldi della zia morta e sull’onda dell’entusiasmo per aver vinto una gara di ballo jitterbug, è arrivata a Los Angeles cercando fortuna a Hollywood. Si ritrova invece a fare la cameriera, ma almeno conosce la sensuale Camilla (Laura Harring), attrice in ascesa, con la quale vive un’intensa relazione lesbica. Camilla, però, preferisce la compagnia del regista Adam (Justin Theroux), che sposa per fare carriera, rompendo con Diane che non la prende bene, tanto da decidere di assoldare un killer e farla ammazzare. A cose fatte, disperata, Diane sogna gli ultimi giorni della sua vita mescolando fatti, volti, nomi, luoghi, oggetti e rivivendoli come se fosse un film, per poi spararsi in testa in preda al rimorso. Bum! Pare tutto risolto; qual è il mistero allora? Semplice, tutto il resto.

Dapprima nel mescolamento temporale proposto da Lynch, con i primi due terzi di film dedicati esclusivamente al sogno di Diane e solo in seguito a ciò che pare effettivamente successo, cosa che crea un fortissimo spaesamento (almeno alla prima visione) anche perché quanto viene raccontato è tutta un’altra cosa. Ovvero: un’avvenente mora (Laura Harring) scampa a un incidente automobilistico, ma le contusioni le hanno provocato un’amnesia quasi totale. Trova riparo nell’appartamento della zia di Betty, al momento occupato da quest’ultima (Naomi Watts), appena giunta a Los Angeles per fare l’attrice. Betty decide di aiutare la smemorata (che si chiama provvisoriamente Rita), un po’ perché se ne è innamorata, un po’ perché nella borsa ha un sacco di soldi e una strana chiave blu triangolare. Mentre il regista Adam (Justine Theroux) si vede rovinare la vita da dei produttori/gangsters, durante le loro indagini Betty e Rita si imbattono nel cadavere di una donna chiamata Diane e in un locale, il Club Silencio. Dopo aver assistito a uno spettacolo, Betty trova nella borsetta un cubo blu, che pare aprirsi con la chiave triangolare. Rita apre il cubo, tutto scompare e il film ricomincia nella stanza da letto di Diane, con la sua storia “parallela”. La faccenda comincia a farsi complicata, e senza tirare poi in ballo tutti i personaggi e i fatti di contorno che imperversano sia nella parte “sognata” che in quella “reale”.

La concatenazione, cronologica o meno, delle sequenze, micro o macro che siano, indica una progettualità, uno sviluppo predeterminato, e quindi un percorso, con una sua (almeno presunta) fine e un suo scopo. Sta allo spettatore/giocatore trovarlo, senza alcun indizio se non quanto si vede sullo schermo e la (quasi) certezza che, ben nascosto da qualche parte, un senso a tutto c’è, uno qualsiasi. Certo, ci sono delle cut-scene, sequenze cui bisogna per forza passare per proseguire con il gioco, come lo spettacolo in playback al Club Silencio e l’apertura del cubo blu, che ci piace immaginare di Schroedinger, scatola con dentro (o forse no) il celebre gatto vivo e morto, contenitore di realtà simultanee e ghignanti demoni prezzolati, slot machine quantistica che rimescola le carte e fa ripartire il gioco. Mulholland Drive è un open world dove possiamo muoverci a piacimento per ricollegare fatti, luoghi, nomi, frasi che ci indichino la direzione verso il prossimo mistero, nella speranza di non dover ridiscutere quanto accertato fino allora, perché come in un’avventura grafica, c’è il rischio fortissimo di incartarsi, di seguire una strada e trovarsela sbarrata subito dietro una curva, di arrivare al game over e dover ricominciare nel migliore dei casi dall’ultimo “save”. E in questi casi, l’unica è giocare di nuovo, e ancora, e ancora. Fosse davvero un videogame, Mulholland Drive avrebbe una rigiocabilità pazzesca. Come minimo.

Nocturno, Mattia Filigoi

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