The Banishment / L’esilio – 05.06.2009 ore 20.30
The Banishment – Izgnanie Russia 2007 150′
di Andrei Zvyagintsev
con K. Levronenko, M. Bonnevie
sceneggiatura di Artyom Melkumian, Oleg Negin dal libro “The Laughing Matter” di William Saroyan
Alex torna nella casa dove aveva trascorso l’infanzia insieme ai genitori, e con lui ci sono la moglie Vera e i due figli. La breve vacanza nella casa situata nella sperduta campagna, diventa per l’uomo l’inizio di un vero e proprio calvario quando la donna gli confessa di aspettare un figlio non suo…
httpv://www.youtube.com/watch?v=Li5BPbida1s
Tra le migliori visioni dell’ultimo Festival del Cinema europeo di Lecce spicca questo The Banishment (già passato in anteprima alla 60ma edizione del Festival di Cannes), film che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Andrei Zvyagintsev, che nel 2003 aveva vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo primo lungometraggio, Il ritorno. Il rapporto con la Storia e con il tempo è al centro di questa cupa storia, e si estrinseca sia in una ricerca formale che non nasconde i propri modelli (in primis il cinema di Andrei Tarkovskij) sia in una riflessione più ampia sul ruolo dell’uomo all’interno di uno spazio che riconosce il proprio passato, ma nel mettere in crisi il presente denuncia una mancanza di futuro.
Il ritorno di Alex nella casa di famiglia diventa infatti per l’uomo un’occasione di confronto sia con ciò che i suoi genitori avevano realizzato in passato che con quanto egli stesso è stato invece capace di costruire sino a quel momento: il luogo è in sé simbolo di memoria, riconduce all’infanzia del protagonista e, attraverso i volti degli avi impressi sulle fotografie, trasuda il suo provenire da un tempo passato, solido ma ormai distante: una sorta di alterità temporale che si ritrova anche a livello fisico nell’isolamento del maniero e nella sua discrasia (gli interni sono oppressivi, cupi e domina una sorta di costante penombra) rispetto allo spazio aperto e solare della campagna circostante. In questo il luogo prosegue la grande tradizione delle case-organismo al cui interno si combatte la lotta dell’umanità e dell’equilibrio interiore (ma anche morale) del protagonista: come l’hotel di Psycho e quello di Shining.
Zvyagintsev lascia che sia quindi il contesto a parlare e ammanta il suo film di un sentimento panico che rende la messinscena e la scelta delle location (il film è stato girato tra Belgio, Moldavia e Francia) significativa e particolarmente potente a livello emotivo: una qualità visiva che predomina e anche per questo i presupposti che hanno portato alla situazione di decadenza nel rapporto fra Alex e Vera sono affidati, più che ai passaggi narrativi costruiti in sceneggiatura, a piccoli gesti, a frasi disseminate quasi casualmente lungo i 150 minuti di durata, come un puzzle che lo spettatore deve lentamente ricostruire. La durata estremamente ampia del film non nuoce all’incedere del racconto, che si rivela teso e dolente regalando un senso di profondo rispetto per i sentimenti umani messi in campo.
La logica che domina il rapporto fra Alex e Vera è dunque quasi utilitaristica, convenzionale, certamente priva di qualsivoglia calore umano, domina una perenne freddezza che Zvyagintsev restituisce a livello visivo attraverso giochi fotografici che addensano i colori, allargano le zone d’ombra e conferiscono all’immagine una densità degna di un noir di Michael Mann (molto simile in effetti è il lavoro sulla composizione orizzontale dell’inquadratura in Cinemascope e sui toni plumbei della fotografia).
La costruzione delle dicotomie è poi complessa, perché Alex è al centro di un sistema di relazioni apparentemente ben definite, ma nel loro insieme molto variegate: i vicini dal nucleo familiare tutto sommato solido, il fratello che si fida di lui ma che a sua volta è un individuo poco raccomandabile (il folgorante incipit ce lo mostra ferito da un colpo di pistola) che lega la gente a sé attraverso relazioni di comodo (come accade con il suo medico, cui rinfaccia i debiti contratti con lui per ottenere il suo aiuto), sono tutti elementi che contribuiscono a isolare il protagonista nel suo microcosmo interiore fatto di incapacità relazionali e giudizi errati.
Il rapporto con Vera (una Maria Bonnevie di straordinaria intensità) è dunque fatto di vicinanze e lontananze e contribuisce a minare alle fondamenta la relazione, intesa sia come legame (affettivo e spirituale) che come costruzione di un nucleo capace di garantire un futuro, una prospettiva che, a livelli universali, possa garantire il perpetrarsi della specie e della società: la solidità del passato dunque si rispecchia in un presente caotico e fragile, dove dominano incomprensioni ed equivoci che contribuiscono a perpetrare il disfacimento.
…
Attraverso una messinscena che ha il sapore della solennità, ma non perde mai di vista la concretezza dei rapporti umani, Zvyagintsev riflette quindi sulle possibilità di una ricostruzione interiore, in una umanità che ha completamente smarrito la propria capacità di trascendere i singoli eventi in nome di una prospettiva alta in grado di redimere la società dai suoi peccati: una specie di sacralità che va intesa in senso non semplicemente religioso quanto filosofico e che tenta di trarre in salvo l’umanità rispetto alla barbarie in cui è decaduta. Significativa in questo caso la scena che vede i figli di Alex, insieme ai loro amici, cercare di completare un puzzle a soggetto religioso, chiara e sin troppo lampante (forse anche didascalica) sintesi del tentativo di ricostruire una possibile componente spirituale in un universo che sembra avere smarrito la propria lucidità.
Il puzzle guida quindi noi spettatori verso il finale, con le sue rivelazioni e con l’estema sintesi garantita dall’ultima inquadratura, dove alcune lavoranti nei campi intonano un canto popolare, incontro simbolico di passato e presente. Un attimo e una delle donne attraversa il campo con un bambino fra le braccia: una nuova ipotesi di possibile futuro dal quale forse sarà possibile ricominciare?
Il nido di Rodin
Madre e figlio – 22.05.2009 ore 20.30
Mutter und Sohn/Mat’ i syn Germ.-Russ. 1997 73′
di Aleksandr Sokurov
con Gudrun Geyer, Aleksej Ananischnov
Madre e figlio è davvero un film raro, anzi rarissimo. Non capita spesso di incontrare un film così “insolitamente” vibrante, semplice e prezioso.
Alexandr Sokurov non è certo alle prime prove con la macchina da presa, ha già realizzato documentari e ben dieci lungometraggi, ma a dire il vero Madre e Figlio potrebbe sembrare un’opera prima, una prima prova d’autore. In qualche modo c’è, in questo film, una tale ricerca estetica, una così grande e viva tensione lirica come non sempre ci si aspetta da un cineasta all’opera da più di vent’anni. Non è certo Alexandr Sokurov uno di quei registi che appena dopo un paio di buone prove si adagiano su un proprio stile che presumono consolidato e ormai praticamente perfetto. Madre e Figlio è un film frutto di una ricerca mai interrotta e di riflessioni che vanno lungo tutto l’arco di una vita.
httpv://www.youtube.com/watch?v=et1XK0sOUN8
I due protagonisti sono gli unici personaggi, una madre e un figlio. Vivono in un paese russo che potrebbe essere qualunque luogo in un tempo indefinibile, oggi come all’inizio della storia dell’uomo, la loro storia è una storia di sempre, vera da quando c’é l’uomo e vera fino a quando l’uomo ci sarà. Sokurov racconta delicatamente e quasi pudicamente il loro legame d’amore, un legame primordiale appunto, che sempre si perpetua, un legame imprescindibile più forte della vita e della morte.
La madre sta morendo in una casa vuota, buia e condivide questi ultimi momenti con il figlio amorevole. Lui la accudisce, la cura, la porta in braccio tra i boschi lì intorno per farle sentire l’aria e vedere il cielo, benché sia sempre grigio, ancora una volta. Nell’approssimarsi della morte il figlio si allontana, sa che quando tornerà la madre probabilmente la madre sarà morta. Il suo vagare, il momento in cui si ferma, abbraccia un albero e piange, il modo in cui osserva le cose della natura quasi a chiedergli un perché, tutto questo è semplicemente poesia.
La macchina da presa indugia sui volti, i lineamenti dei corpi, li esalta, per meglio dire li sottolinea, ce li fa contemplare per diversi minuti e ci sembra di non vedere un film, piuttosto delle tele di pittura romantica nord-europea. La fotografia è livida e a tratti opaca, le immagini della madre morente nel letto o del figlio in un prato sono allungate e davvero irreali. La natura è viva, sembra avere un’anima, è irreale anch’essa, ma viva. La regia di Sokurov coglie immagini, ferma momenti dipinti di rara bellezza. I dialoghi sono ridotti quasi a nulla, tutte le parole non dette finiscono per far risaltare ancora di più l’intensità dei sentimenti tra i due.
Sokurov con il suo film ha voluto riflettere proprio sull’amore che salda i legami tra una madre e il figlio. Certamente il tema non è nuovo nel cinema, ma è difficile ricordare quando con il cinema si è arrivati a tanta emozione e bellezza per raccontare una madre e un figlio. Nell’impegno che mette per assistere la madre, il figlio è quasi un eroe, quello stesso eroe austero e silenzioso e segnato da un destino di allontanamento dagli affetti che vive in numerose pagine di letteratura russa, un eroe che dica di “vivere razionalmente per non spezzare il cuore”. Per questo Sokurov è un regista, un artista tipicamente russo. Sa esprimere con il cinema la sensibilità, l’essenza dell’arte russa e sa raccontarla con poesia in un film breve, ma semplicemente indimenticabile.
1998 reVision, Simone Porrovecchio
Luna Papa – 08.05.2009 ore 20.30
Luna Papa Germania-Russia 106′
di Bakhtiyar Khudojnazarov
con Moritz Bleibtreu, Chulpan Khamatova, Ato Mukhamedshanov
Ci sono film che soffrono il peso di eredità più grandi di loro, e altri che riescono a sbarazzarsi di sospette parentele in modo quasi irritante. E’ possibile che un’idiozia come The Blair Witch Project possa impunemente citare, perfino nei dialoghi, Deliverance (Un Tranquillo Week-end Di Paura) – del quale sembra la copia realizzata da un videoamatore avvezzo ai filmini di matrimonio – senza che nessun critico insorga, mentre Luna Papa debba essere continuamente liquidato come “kusturiciano”? Per rispondere alle domande banali è meglio partire da vicinissimo o da lontano, come insegna Kurt Vonnegut. Nel nostro caso, meglio iniziare dallo strato più esterno della cipolla. Abbiate pazienza. Verso metà recensione, smetteremo di parlare di critica e inizieremo a parlare di cinema. Meglio tardi che mai, se siete fan di “Ciak”.
httpv://www.youtube.com/watch?v=E2o4rvVUD_o
Provate voi ad imitare Mike Tyson.
E’ un demerito che Luna Papa di Bakhtiar Khudujnazarov ricordi gli ultimi film di Kusturica, e specialmente Gatto Nero, Gatto Bianco (se avete tempo, cliccate questo link, che la recensione è mia e non è affatto male)? A parte il fatto che bisognerebbe dare medaglie d’onore a certi atti di incoscienza (“Ho appena iniziato a scrivere un romanzo. E’ una rilettura moderna di Alla ricerca del tempo perduto”), bollare Luna Papa come semplicemente kusturiciano significa dimenticarsi un bel po’ di cose. Intanto, che lo stesso Kusturica ha ampi debiti verso, citando a casaccio, Magritte e Fellini, l’arte popolare e la musica punk, Jean Vigo e il realismo magico, Ivo Andric e Garcia Marquez, Abdhullah Sidran ed il circo, Alejandro Jodorowski e tutti i sogni che vi passano per la testa ogni notte, anche se non ve li ricordate. In secondo luogo, c’è molto altro in Luna Papa, anche a livello cinematografico: ci sono, solo per iniziare, Sergej Paradjanov e molto cinema sovietico, ad esempio. Insomma: non è falso che Luna Papa sia un film pieno di cose, ricordi, citazioni – anche di Kusturica. Ma provate voi ad imitare Mike Tyson, o Jimi Hendrix.
Segreti e bugie
Resta invece, e siamo al secondo strato della cipolla, qualcosa di più meschino da analizzare. Si tratta del modo in cui quel grande e geniale figlio di buona donna di Kusturica (e lo dico con tutto l’amore che può avere per lui uno che gli ha dedicato quasi cinquecento pagine di tesi di laurea, analizzando allo spasimo ogni movimento di macchina di ogni sua sequenza) ha fregato Luna Papa. Dopo aver buttato fuori dal concorso di Venezia, da concorrente, La Polveriera di Goran Paskalijevic, ha reagito all’offerta di essere presidente della giuria di Venezia 1999 bofonchiando: “Ne sono molto lieto, visto che sarà in concorso un film che amo molto, Luna Papa del mio amico Bakhtiar Khudujnazarov”. Imbarazzante incidente diplomatico che ha costretto i selezionatori a esiliare Luna Papa in una sezione parallela del Festival e a fargli perdere la possibilità di aspirare ad un Leone d’Oro che i soliti ben informati davano come più che probabile. Ma vedendo Luna Papa appare evidente un altro motivo, oltre alla somiglianza con alcuni suoi film, che può aver stimolato in Kusturica amore tanto sospetto e dagli esiti tanto disastrosi. Luna Papa è prodotto da Karl Baumgartner della Pandora. Lo stesso che ha prodotto Underground e Gatto Nero, Gatto Bianco. Me lo vedo Kusturica che dà un morso al sigaro, sputa e s’incazza. Chiedetelo al suo musicista, Goran Bregovic, quanto è geloso di certe cose. Specialmente se mentre lui si prostituisce in faccende come la pubblicità dei quaranta ladroni (anche qui, me lo immagino che pensa “Che sarà mai, anche Fellini ha fatto la pubblicità…” contando i bigliettoni), la Pandora trova uno che non è affatto male nel fare le stesse cose che fa lui. Tenendo conto che fino a qualche tempo fa Emir era solito girare con una pistola sotto la giacca di pelle, forse a Bakhtiar gli è andata bene. Come si dice, se hai uno come Kusturica come amico, non ti servono nemici.
Del far cadere animali dal cielo
Ok. Ce l’avete quasi fatta a passare gli strati della maledicenza e del pettegolezzo. Siamo quasi pronti per parlare di cinema. Cercate di far arrivare ossigeno al cervello. Ce ne vuole molto per guardare Luna Papa. Ci vuole fiato e resistenza. Perché il film è pieno di cose, di idee di regia e di scrittura, proprio come un film di Kusturica (lo ammetto, questo l’ho scritto apposta per provocarvi). Ma è anche veloce come può esserlo il cinema di uno nato, come Khudujnazarov, nel 1965. E’ veloce nel montaggio quanto nei movimenti interni alle inquadrature, sempre agitate da qualcosa, sempre percorse da qualcosa – cavalli, aerei, carri armati, chiatte, pecore in volo, sidecar, ambulanze, macchine della polizia, tetti di case. Luna Papa è probabilmente un film da record nella categoria maggior numero di entrate ed uscite di campo. Si tratta di una agitazione che corrisponde perfettamente alla vitalità, al moto inesausto dei sentimenti dei suoi protagonisti. In perenne corsa e sempre pronti a reagire, febbrili e folli. Nel costruire il suo universo immaginario (il villaggio in cui è ambientato il film è stato totalmente realizzato dall’eccellente scenografo del film), Khudujnazarov procede per accumuli e flash, in modo eccessivo ma, alla fine, coerente. Tanto che, quando un toro piove dal cielo sulla testa di due personaggi uccidendoli, la cosa non ci pare solo accettabile, ma anche logica. E’ un risultato non male in un’arte come il cinema, che, come tutti sanno, ha molto a che vedere con il far attraversare delle inquadrature a degli animali (se non ci credete, provate a rivedervi Fiume Rosso di Howard Hawks). Per innalzare una pietra di paragone, il massimo cui è giunto il cinema italiano in questo settore è dato dal volo di un botolo dalla finestra di un ospedale nel peraltro non spregevole Il Grande Cocomero della Archibugi. Detto per inciso, il botolo non muore nemmeno, cosa che permette anche di realizzare una delle sintesi più azzeccate di quel film che mi sia stato dato di udire: è un film in cui un cane cade dal terzo piano e sopravvive. Per fortuna, in Luna Papa non c’è traccia di questo tipo di buonismo. Quando c’è da morire si muore (anche solo per una gazzosa).
Volevate la trama?
Va bene: magari siete abituati a “Ciak” e vi dà fastidio essere arrivati sino a qui senza averci capito niente del film. A parte che è molto meglio così, e che il mio compito dovrebbe essere al massimo quello di costringervi a ragionare sopra Luna Papa dopo che lo avete visto o magari di farvi venire voglia di vederlo, posso giusto dirvi in due parole che il film racconta le vicissitudini di una buffa ragazza tagika, una specie di Gelsomina (rivedere La Strada di Fellini) ex-sovietica, e della sua scombinata famiglia.
Due o tre cose che Bakthiar sa del cinema
L’esilità della trama (la ragazza rimane incinta e lei, padre e fratello disturbato cercano in ogni dove il misterioso padre) non rende giustizia al film, che è largamente più divertente, animato e intelligente della maggior parte delle cose che capita di vedere in sala. Se non vi è bastata come prova del talento di Khudujnazarov il fatto che riesca a far plausibilmente piovere manzi dal cielo (come le pietre sulla classe operaia, direbbe Ken Loach), vi posso anche dire che ha una bravura non comune nell’usare i suoni, e, quando si impegna, una grande capacità di sintesi narrativa (oltre a, va da sé, un buon occhio visionario). Riguardo ai suoni, bastano i cavalli all’inizio del film e gli aerei in entrata ed uscita per far capire che il regista tagiko ci sa fare. Non è ancora un sound designer come David Lynch, ma è sulla buona strada. Per quanto riguarda, invece, il talento narrativo, è sufficiente vedere l’ellisse semplicissima ma vertiginosa con cui Khudujnazarov mostra ad inizio film il fratello della protagonista importunare la collega della ragazza: due scene prima avevamo visto la ragazza regalare alla collega la foto di un celebre attore, ora vediamo che la ragazza ha già ritagliato la foto dell’attore e se l’è appuntata sul petto. Tempo e spazio sono estremamente comprimibili e manipolabili per Khudujnazarov. Dovrebbero esserlo per qualsiasi bravo regista, ma vallo a spiegare – vallo a spiegare a quelli che si deliziano di roba come The Blair Witch Project, prolisso e privo di logica narrativa, ridondante ed inutile.
Il ragazzo si farà
E poi Khudujnazarov ha solo trentacinque anni. Che per il nostro cinema sono praticamente nulla: è un adolescente per la media d’età dei registi europei. E quindi gli scusiamo le sbandate (il finale del film non sta molto in piedi, e non è un problema solo di pale di ventilatore), alcune ripetizioni e alcune perdite di ritmo, la superficialità di certe invenzioni che rimangono fini a se stesse. Ma sono, in fondo, difetti veniali. Luna Papa è un film divertente e godibile. Non possiamo che augurare un futuro radioso al suo regista (oltre a suggerirgli di adottare un nome d’arte: accidenti, non riusciamo a pronunciarlo, il suo cognome, nemmeno fosse come sarà l’ultima parola di questo articolo: Khudujnazarov).
© 2000 reVision, Fabrizio Bozzetti