MEAN STREETS – DOMENICA IN CHIESA, LUNEDÌ ALL’INFERNO
lunedì 17 Febbraio 2025, 11:31
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Mean Streets
di Martin Scorsese
con Robert De Niro, Harvey Keitel, David Proval, Amy Robinson, Richard Romanus, Cesare Danova, Victor Argo, David Carradine, Robert Carradine
USA   1973   110′

Mean Streets parlava del Sogno Americano, secondo il quale chiunque può diventare ricco in fretta, e se non ci riesce con i metodi legali, può sempre farlo con quelli illegali. Il crollo dei valori è ancora una realtà odierna, e mi piacerebbe fare un altro paio di film sullo stesso tema. L’idea di questi ragazzi è quella di fare soldi, magari un milione di dollari o due, rubando, picchiando o truffando qualcuno. È molto più facile che riuscire a guadagnarli onestamente.
All’inizio della sceneggiatura di Mean Streets c’era una citazione tratta da un brano di Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues, che diceva: “Hai studiato per vent’anni e ti hanno assegnato il turno di giorno”. E un’altra che diceva, “scordatelo, non lo faremo”. Ovviamente Dylan intendeva cose diverse. Ma io volevo descrivere un’attitudine, volevo capire perché queste persone si trovassero in determinate situazioni, la cui unica via d’uscita era spesso la morte. […]
Coloro che erano maggiormente rispettati nel quartiere dove sono cresciuto, non erano i lavoratori, ma i dritti, i capo-banda e i preti. Fu questo che mi spinse a tentare di diventare un prete, che temo sia un mestiere ancora più difficile!
Mean Streets fu un tentativo di rappresentare me e i miei amici sullo schermo, di mostrare come vivevamo, cos’era la vita a Little Italy. In un certo senso era un trattato antropologico o sociologico. Charlie si serve delle altre persone, ed è convinto di aiutarle; ma così facendo, egli non solo rovina loro, ma anche se stesso. Quando lotta con Johnny davanti alla porta, in strada, si comporta come se lo stesse facendo per gli altri, ma in realtà lo fa soltanto per il suo orgoglio, il primo peccato della Bibbia.
La mia voce si sovrappone spesso a quella di Charlie per tutto il film; era un modo per cercare di trovare un accordo con me stesso, di redimermi. Non è difficile imporsi di andare a messa la domenica. Non è questa la redenzione, per me: redenzione è il modo in cui vivi, il modo in cui ti comporti con gli altri, sia nelle strade, che a casa, che in ufficio.

Martin Scorsese, Scorsese secondo Scorsese, a cura di Ian Christie e David Thompson, Ubulibri, Milano 2003

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HOLLYWOOD PARTY
lunedì 10 Febbraio 2025, 19:30
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The Party
di Blake Edwards
con Peter Sellers, Claudine Longet, Jean Carson, Marge Champion, Al Checco
USA   1968   99′

Probabilmente il film più divertente realizzato dalla coppia Blake Edwards/Peter Sellers, sicuramente quello più iconico. Manifesto di comicità anarchica, film sessantottino per eccellenza in cui libertà espressiva, pacifismo e messa al bando di ogni ordine precostituito passano atraverso una girandola di esilaranti situazioni da cui è impossibile non essere travolti, Hollywood Party è un’opera delirante che procede per accumulo di gag visive e siparietti slapstick, trovando nella concatenazione delle trovate surreali una grande linfa vitale. L’ingenuità e la purezza propria di un bambino del protagonista sono rese magistralmente da Peter Sellers che, in una prova di attore di debordante generosità, offre una delle sue migliori interpretazioni di sempre, non facendo rimpiangere i colossi della comicità a cui si ispira (Buster Keaton e Jerry Lewis, passando per i fratelli Marx). Nonostante la sua carica eversiva appaia oggi smorzata, il film rimane la psichedelica testimonianza di un’epoca, filtrata da un’operazione sottilmente cinefila che recupera la tradizione comica delle origini.
LongTake

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LA RABBIA GIOVANE
domenica 02 Febbraio 2025, 11:23
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Badlands
di Terrence Malick
con Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri, John Carter, Alan Vint
USA   1973   95′

Malick prima di Malick. Per leggere il cinema più recente di questo regista, non semplicemente in un discorso formale ma in relazione a un percorso che lo ha portato alla definizione di una lingua personale, è necessario iniziare dal suo film d’esordio che lo vede anche nel ruolo di sceneggiatore e produttore. Badlands, che è il titolo originale e letteralmente indica una certa conformazione piuttosto aspra del territorio da cui prende nome anche un parco nazionale, è già un chiaro segnale dello spazio che l’ambiente ha rispetto ai personaggi. Prima che esso possa prendere il sopravvento, influenzandone scelte e comportamenti, come accade ad esempio ne I giorni del cielo, opera seconda di Malick, qui entra a far parte della narrazione in una posizione che potremmo chiamare di “correlativo soggettivo”. Perché nodo centrale di una storia che non raggiunge ancora quelle punte di rarefazione alla Tree of Life sono Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek). Lui venticinquenne “si atteggia” a James Dean ed è insoddisfatto della vita – fa i lavori più umili; lei, quindici anni, è un’adolescente matura che si innamora e si lascia trascinare via, impassibile di fronte all’uccisione del padre da parte del ragazzo. Una favola romantica, un dramma, una mitologia di un evento realmente accaduto (il caso della coppia Starkweather-Fugate)?

La rabbia giovane è uno degli esordi più sorprendenti proprio perché sovverte le convenzioni e si pone in un non-luogo dove il tempo sfugge alla Storia e ne lascia una eco appena percettibile in quel malessere che paradossalmente non appartiene solo a una generazione. Sì, c’è la figura leggendaria di Dean che viene rievocata neanche senza troppe velature, però non siamo più confinati nel recinto familiare de La valle dell’Eden o di Gioventù bruciata. È una gioventù, questa rappresentata da Malick, che si è già emancipata da padri severi – Holly non piange la morte a sangue freddo del genitore, né sembra scossa. L’indifferenza con cui Kit fa fuori chi prova a fermarli è allora figlia di un sentimento di spaesamento e alienazione nei confronti di un momento storico. Malick, volutamente, non dà le coordinate per orientarsi in questa perdita dell’innocenza, non tenta di ricomporre le parti del quadro, e si affida a un punto di vista interno che è quello della protagonista.

Normalmente la voce narrante nel cinema viene considerata un elemento aggiuntivo rispetto al potere evocativo delle immagini e spesso si tende a limitarla, se non a demonizzarla soprattutto laddove esista un riferimento di matrice letteraria – tradurre significa “trasfigurare”. Malick la riconduce a un carattere introspettivo, quasi come fosse una confidenza dei personaggi rivolta a un tentativo di messa a fuoco dei loro stati, piuttosto che assegnarle una funzione di tipo esplicativo. La riprova di questo approccio, che travalica quindi l’uso più consueto della voce narrante, sta nel fatto che alla fine le ragioni che muovono Kit a ribellarsi restano in qualche modo sospese: la stessa Holly parla di stato d’incoscienza, di disperazione e dopo l’ennesima sparatoria abbandonerà il ragazzo al suo destino.

Lo spettatore viene circoscritto in uno spazio che è delimitato dallo sguardo stesso dei protagonisti: è assente in Malick la volontà di spingersi oltre per estendere il raggio a una narrazione di campo e contro-campo, da una parte i ricercati e dall’altra la polizia che è sulle loro tracce. E questo sposta inevitabilmente l’attenzione dall’azione, qui intesa come fuga verso la libertà alla Bonnie e Clyde, alla reazione che Kit ha di fronte all’incursione di “elementi” che, pur appartenendo al loro mondo, ne sono estranei. L’unico momento straniante rispetto a una figurazione interiore, ma forse è anch’esso frutto in una prospettiva d’immaginazione di Holly, è la sequenza in bianco e nero che ci proietta all’esterno: le immagini vengono assemblate a mo’ di notiziario recuperando per un attimo quella dimensione di cronaca di un fatto d’attualità.

Per il resto del film danziamo in una realtà sognante abbracciati a King Cole in uno dei lenti più romanticamente assurdi – i corpi di Kit e Holly illuminati dai fari dell’automobile riflettono le loro ombre sullo sterrato dell’autostrada. La musica-guida di Carl Orff poi è un ritorno a un’età mitica, di purezza, “piena di cose che danno il piacere solo a guardarle”. È la natura, habitat per eccellenza dell’essere umano sin dalle origini: i protagonisti costruiscono una casetta sull’albero in una foresta attraversata da un fiume; hanno anche una gallina. Si spostano lungo ampie distese, ambienti primitivi inframmezzati giusto da qualche segno di civiltà. La loro condizione diviene parte stessa di quel paesaggio che Kit fissa al tramonto fino a sera fermo in posa come uno spaventapasseri: “Vivevamo nel più completo isolamento, un po’ qui un po’ la. Secondo Kit avrei dovuto dire solitudine perché si adatta più al mio stato d’animo”.
Sentieri Selvaggi, Marco Bolsi

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