Frammenti: Tardo autunno
lunedì 20 Maggio 2024, 12:10
Filed under: cinempaiù 44

TARDO AUTUNNO
di Yasujirō Ozu
con Ayako Senno, Chishū Ryū, Fumio Watanabe, Keiji Sada, Koji Shitara, Kuniko Miyake, Mariko Okada, Masahiko Shimazu, Miyuki Kuwano, Nobuo Nakamura, Ryuji Kita, Sadako Sawamura, Setsuko Hara, Shin Saburi, Shin’ichirō Mikami, Tsūsai Sugawara, Yoko Tsukasa, Yuriko Tashiro
Giappone   1960   128′

Terzultimo film di Yasujirō Ozu, Tardo autunno è un’opera con toni da commedia, portati avanti dai personaggi dei tre maldestri strateghi di matrimoni, da cui però trapela un grande senso di tristezza legato alla separazione famigliare, agli obblighi sociali di ripristinare nuclei famigliari integri.

La Torre di Tokyo è stata costruita nel 1958: un simbolo imponente della città e della rinnovata potenza del paese nel pieno del suo boom economico. Significata anche sancire la fine delle difficoltà del dopoguerra, come racconta il film Always: Sunset on Third Street (2005) di Takashi Yamazaki. La Torre di Tokyo svetta nelle prime inquadrature di Tardo autunno, il terzultimo film di Yasujirō Ozu. Il titolo internazionale con cui il film è conosciuto, Late Autumn, non è una traduzione letterale ma rende il concetto di quello originale Akibiyori, 秋日和, parola che indica improvvise belle giornate d’autunno dopo un periodo di brutto tempo. La Torre di Tokyo è vista in una serie di inquadrature, a cominciare da una dove è sullo sfondo di alberi con ancora poche foglie, nel loro aspetto autunnale. Con la sua architettura reticolare diventa una nuova immagine di quell’estetica dei grovigli di acciaio con cui il cineasta racconta la vertiginosa modernità del paese. Una metropoli sempre più moderna e occidentale quella raffigurata in Tardo autunno, in cui i classici locali e ristorantini dove si svolgono momenti conviviali, passaggi narrativi importanti, portano insegne occidentali, bar Luna, bar Carmen, bar Blow, bar Arrow così come il negozio da golf che si chiama Green Golf; e dove si vedono ancora una volta prodotti o pubblicità di marchi occidentali, Coca Cola, Johnnie Walker. E tra i giovani giapponesi impazzano il rockabilly ed Elvis, come osservano sconcertate due signore nel film.

Ancora una volta nel cinema di Ozu è centrale la famiglia monca, con un vuoto generato dalla perdita di qualche congiunto. Lo è la famiglia Miwa, delle protagoniste Akiko e Ayako, madre e figlia, il cui padre/marito è mancato da sette anni. Anche il professor Hirayama, pretendente di Akiko, è vedovo, mentre Goto, che si sposerà con Ayako, ha perso la madre quando era piccolo in un giorno d’autunno. Raccomanda alla ragazza di non litigare con la madre, situazione che per lui è occasione di un enorme rimpianto. Infine, Yukiko, collega e amica di Ayako, dice di avere una matrigna. Le simmetrie narrative del cinema di Ozu qui raccontano di un’esigenza sociale a riempire i buchi e ricostituire la famiglia tradizionale sostituendo quel membro che sia venuto a mancare. Ozu, che non si è mai sposato e che ha sempre vissuto con la madre, racconta dell’affetto tra Akiko e Ayako, della loro vita insieme dopo la scomparsa del marito/padre, e della tristezza della loro, quantomeno forzata, separazione.

Ancora una volta nel cinema di Ozu è centrale il conflitto tra la mai estinta usanza del matrimonio combinato, detta miai-kekkon, e il matrimonio d’amore. Uno dei tre ex-compagni è contrariato per un momento di crisi coniugale della figlia, nonostante lei abbia scelto il marito per amore. Ayako comincia a convincersi del matrimonio con Goto solo dopo averlo incontrato di persona, momento in cui scatta una scintilla, mentre in precedenza aveva escluso il connubio a scatola chiusa, con lui come con chiunque altro. Evitava ogni proposta perché stava bene con la madre, perché avrebbe allungato la primavera della propria vita, consapevole che avrebbe cambiato idea solo se innamorata. La paura per il matrimonio è condivisa con la collega Yukiko. Le due, guardando dalla terrazza del palazzo del loro ufficio un paesaggio urbano (posizionate con effetto sojikei) che contempla, oltre al solito treno un autobus che lo affianca, fanno i commenti su una collega che è convolata a nozze senza invitarle al rinfresco, osservando come il matrimonio conduca a isolarsi e a separarsi dagli affetti di prima. Ayako poi è fortemente contrariata quando crede che la madre intenda risposarsi, perché reputa ciò un tradimento al defunto padre. Ancora il professor Hirayama, incalzato da Yukiko nel momento in cui è certo di risposarsi con Akiko, promette di amare la futura moglie per sempre. «Amore e matrimonio dovrebbero coincidere», afferma Ayako pranzando con uno dei tre che la vorrebbero sistemare. «Ma se non succede, non è la fine del mondo. Amare qualcuno è già abbastanza. Non c’è bisogno di sposarsi», aggiunge, sottolineando la differenza di vedute dei giovani con le vecchie generazioni.

Il rapporto amore/matrimonio combinato si incrocia e riflette sull’antinomia vita/morte che pervade tutto il film. Tardo autunno comincia con una celebrazione buddhista dell’anniversario di una morte, dove si trovano pressoché tutti i personaggi, improntata alla serena rassegnazione giapponese, in un tempio sui cui muri si riverberano le onde di un vicino corso d’acqua, immagine della fragilità e dell’impermanenza della vita. E il film si conclude con un pomposo matrimonio dove aleggia un’atmosfera triste e funerea. Avere una bella moglie accorcia la vita: è una battuta che fanno i tre buontemponi, mentre Akiko si convince della necessità che la figlia convoli a nozze perché, come lei, ha tutta la vita davanti. E ciò quando pressoché ogni personaggio si porta dietro il lutto di un congiunto.

«La vita è semplice ma ci sono persone che riescono a complicare le cose»: è una perla di saggezza che esce dalla chiacchierata finale dei tre cospiratori pasticcioni, che brindano pensando di aver raggiunto l’obiettivo. Tra le persone complicate c’è sicuramente lo stesso regista, che costruisce un’opera dalla complessa architettura visiva e narrativa, con le solite specularità ed ellissi. Ci sono ancora gli effetti sojikei, ovvero le immagini dove due personaggi compiono gli stessi movimenti, tra cui quello di due dei tre anziani al tavolo di un bar che, imbarazzati, agitano alla stesso modo le pipe che appartenevano al loro vecchio amico, donate loro da Akiko e Ayako come a preparare quel momento. Simmetrie, specularità e collegamenti sono anche con altri film di Ozu, all’interno di una filmografia che funziona come un macrotesto dove ogni pellicola occupa un tassello. Tardo autunno funziona come una nuova versione di Tarda primavera, cambiando il sesso del genitore vedovo e facendo passare l’attrice Setsuko Hara da figlia a madre. I due film sono in realtà tratti da due romanzi diversi, il primo cronologicamente di Kazuo Hirotsu, il secondo di Ton Satomi da cui Ozu aveva già tratto Fiori d’equinozio. I punti in comune tra i due film sono sicuramente tanti così come con Il gusto del sakè o C’era un padre. I tre signori evocano spesso la loro giovinezza, quell’epoca in cui non avevano molti soldi ma tanta allegria. Tutti e quattro corteggiavano la bella Akiko: il loro defunto compagno è stato quello che l’ha spuntata conquistandola e sposandola, peraltro già, evidentemente, con un matrimonio d’amore. Qui Ozu richiama espressamente il suo cinema degli anni Trenta, in una memoria, e in una nostalgia, autoriflessive. Film come Anche se non sono riuscito a laurearmi…, Dove sono finiti i sogni di gioventù?, i cui protagonisti e le situazioni poterebbero esseri gli stessi di Tardo autunno da giovani. E Ozu guarda anche al cinema americano: da una nota dei suoi diari, datata 10 febbraio 1960, si apprende che si è ispirato per il copione al western di John Ford, I tre furfanti, dove tre simpatici fuorilegge organizzano il matrimonio per una ragazza il cui padre è stato ucciso.

Se nel 1960 la Torre di Tokyo, edificata due anni prima, era un faro di ottimismo per il progresso della nazione, quell’anno fu particolarmente turbolento per il paese. Era già iniziato il “Sessantotto”, ben prima che nel resto del mondo, con le violente proteste Anpo, contro il trattato nippo-americano. Ovunque nel paese si verificavano scontri violenti tra manifestanti e polizia, con vittime, mentre si susseguivano gli scioperi come quelli dei minatori. Il leader socialista Asanuma fu assassinato da un giovane fanatico di estrema destra. Mentre Ozu raccontava della fine di un sistema di valori tradizionali, la sua stessa casa di produzione, la Shochiku, produceva Notte e nebbia in Giappone, di un giovane regista arrabbiato, Nagisa Ōshima, che rifletteva il clima turbolento di quel momento. Anche un tipo di cinema classico era ormai arrivato nel suo tardo autunno.

Quinlan, Giampiero Raganelli

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Frammenti: Nico, 1988
lunedì 13 Maggio 2024, 12:41
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NICO, 1988
di Susanna Nicchiarelli
con Tryne Dyrholm, John Gordon Sinclair, Anamaria Marinca, Thomas Trabacchi, Karina Fernandez
Italia/Belgio   2017   93′

In uno straordinario scritto per il Village Voice del 1979, The White Noise Supremacists, Lester Bangs fa il punto su alcune tendenze di spacconaggine pseudo-nazi-razzista nell’ambiente musicale soprattutto new wave, proprio quella scena che aveva deciso di accogliere Nico nel suo percorso da solista, con gli album in larga parte clamorosi realizzati in complicità con John Cale, Brian Eno, Phil Manzanera. Tra i riferimenti principali, Bangs utilizza la versione agghiacciante dell’inno tedesco che Nico inserisce in chiusura di The End, album del 1974 (lo scrittore racconta di una versione dal vivo dell’inno, durante una performance della musicista al CBGB’s di New York).

Ecco, l’aspetto più sorprendente del lavoro di Susanna Nicchiarelli è la maniera con cui affronta l’ambiguità ideologica, e questa sorta di nazionalismo in misura inconsapevole, che facevano parte del carattere di Christa Päffgen: nel rapporto tra distacco e tenerezza con il manager inglese Richard (“l’avvocato ebreo”), nelle memorie di guerra della Berlino bombardata, o nelle reazioni impazzite in concomitanza delle esibizioni nei Paesi del blocco sovietico, Nicchiarelli esplicita quella stessa tensione non riconciliata nei confronti del Passato e dei propri demoni interiori, che ritrovi poi traslata in maniera così potente e disturbante nella produzione musicale di Nico del periodo.

Il pretesto è raccontare il tour dell’86-88 della musicista, in un on the road spezzato da brevissimi istanti di repertorio dall’Exploding Plastic Inevitable, lo show multimediale ideato da Warhol con i Velvet Underground vent’anni prima, un viaggio per l’Europa presto trasformato in una sorta di percorso di presa di coscienza riguardo alla complessa relazione irrisolta con il figlio Ari.
La regista ha mano felice nelle ricostruzioni di questa tournée in hotel scalcinati, locali di periferia, centri sociali, piazze di paese (Anzio!), in cui Nico condivide la propria passione per gli stupefacenti con la giovane band di musicisti che le viene messa a disposizione, di cui seguiamo anche amori e estemporanee vicende.

Fortunatamente, il racconto non assume mai il piglio spensierato del biopic musicale “su di giri”, ma mantiene la tonalità oscura del repertorio del periodo Marble Index/Desertshore – giovano parecchio i riusciti frammenti musicali con la riproposizione di brani non scontati di Nico (Janitor of Lunacy, My only child… l’unico istante reediano è una All tomorrow’s parties) nei fascinosi arrangiamenti di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, dove l’interprete Trine Dyrholm ha modo di donare la propria voce alle canzoni.

E’ indubbio infatti che una grande parte del magnetismo inaspettato del film sia merito dell’attrice, in grado di restituire un ritratto inedito dell’icona “maledetta”, molto lontano da quello della femme fatale bionda della Factory. Nicchiarelli semina nell’opera confessioni e riflessioni della donna attraverso espedienti come interviste radiofoniche, o improvvise aperture in istanti di intimità (come la cena a casa del fan romano Thomas Trabacchi), un po’ alla maniera dell’Amalric regista: chiaramente, non ne possiede la complessità teorica e lo sguardo stratificato, ma Nico, 1988 rivela, anche quando troppo appesantito da alcuni passaggi un po’ contriti (come l’ennesimo tentato suicidio di Ari), una sincerità che cattura, quella fragilità sfacciata di chi ha messo il cuore in ogni azzardo.

Sentieri Selvaggi, Sergio Sozzo 

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Frammenti: Illusioini perdute
lunedì 06 Maggio 2024, 10:36
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ILLUSIONI PERDUTE
Illusions perdues
di Xavier Giannoli
con Banjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, Gérard Depardieu, André Marcon, Louis-Do de Lencquesaing
Francia   2021   141′

Lucien è un giovane poeta sconosciuto nella Francia del XIX secolo. Nutre grandi speranze ed è deciso a forgiare il proprio destino. Abbandonata la tipografia di famiglia nella città natìa, decide di tentare la sorte a Parigi sotto l’ala protettrice della sua mecenate. Lasciato presto a cavarsela da solo in questa meravigliosa città, il giovane scoprirà le macchinazioni in atto in un mondo che ubbidisce alla legge del profitto e della simulazione. Una commedia umana dove tutto può essere comprato o venduto, il successo letterario e la stampa, la politica e i sentimenti, la reputazione e l’anima…

Concentrandosi sulla parte centrale del trittico Illusioni perdute, pubblicato da Balzac tra il 1837 e il 1843, Xavier Giannoli realizza la sua personale versione dell’ascesa e caduta sociale ed economica di un plebeo a contatto con l’alta società, che ha nel Barry Lyndon di Stanley Kubrick il termine di paragone cinematografico più illustre e ineguagliabile. Nell’epoca della Restaurazione monarchica successiva all’avventurismo napoleonico, segmento della storia di cui il grande autore francese è contemporaneo e in cui ambienta la sua sterminata Commedia umana, tutto è in ridefinizione, dai valori morali alla standardizzazione classista dei rapporti amorosi. Ridefinizione che si rileverà essere un riflusso teso a cancellare ogni cambiamento favorito dalla riuscita Rivoluzione di poco antecedente, ma questo l’idealista Lucien Chardon (Benjamin Voisin) non lo sa ancora. Il suo cuore è gonfio di passione per madame de Bargeton (Cécile de France) che finanzia il suo desiderio di lasciare l’ubertosa (ma culturalmente inerte) provincia per tentare l’avventura letteraria nella capitale. Qui il giovane Lucien entrerà in contatto con il mondo del giornalismo prima che con quello degli editori, e dovrà sudare le proverbiali sette camicie perché la sua raccolta di poesie possa trovare la via delle stampe.

Giannoli e il suo cosceneggiatore Jacques Fieschi sfrondano episodi, adattano dialoghi, attualizzano situazioni, compiendo un lavoro magistrale che potrebbe rinunciare, in sede di premiazione nel Concorso veneziano, al premio dedicato solo per approdi più sostanziosi. Ne ottengono un copione brillante, perfettamente organizzato nei tempi e nelle battute, servito da un cast in stato di grazia (agli attori già nominati dobbiamo aggiungere, in sede di segnalazione, almeno Xavier Dolan, Jeanne Balibar e Gérard Depardieu, ognuno perfettamente calato nei panni d’epoca del personaggio assegnato, tante prime donne che fanno gioco di squadra). Il regista transalpino fa lo stesso, illustrando la sfarzose scenografie con uno stile mai sovrabbondante, sempre teso a cogliere l’espressione dei visi più che a intasare il campo con un complesso movimento di camera, una regia “invisibile” nel senso più nobile e classico del termine. Il risultato è un’opera di oltre due ore e venti minuti che fila via veloce come un treno nella notte, pregna di contenuti “alti” affidati a scambi di battute sapidi e taglienti, intrisa di feroce umorismo anche nel momento della tragedia, della caduta, della fine dei sogni. Nella parabola del provinciale a contatto con il bel mondo, Un grande uomo di provincia a Parigi è il titolo originale balzachiano, il cinefilo di stretta osservanza non può non rivedere echi (ed il cinema è un’arte meravigliosa anche per la sua capacità di riunire epoche e mondi diversi) del Marcello Rubini di felliniana memoria, quasi come se il film fosse un prequel de La dolce vita in altri tempi e altri spazi, ma con una tensione morale coincidente. Fellini-Flaiano-Pinelli avevano letto Balzac? Non è da escludere, ma è comunque un’altra storia…

Sul piano contenutistico, i temi del film sono di sconcertante attualità, e rappresentano una plastica dimostrazione della ricorsività ottundente del società del profitto, che Balzac vedeva nascere, e che non saremo noi, probabilmente, a vedere ancora morire. Il giornale progressista in cui Lucien approda non ha nessuna etica professionale, è semplicemente in vendita al miglior offerente pezzo dopo pezzo, mentre quello conservatore sbandiera senso del dovere. Un paradosso? Solo a prima vista, perché la conservazione è finanziata dai padroni del vapore, mentre l’approccio scafato e demolitore ha bisogno di continue sovvenzioni. Sotto la lente d’ingrandimento finiscono tutti, critici, nobili e banchieri, padri e figli di un relativismo morale di complessa lettura e immediata comprensione, per rimanere nel campo dell’accettabile paradosso. In questa vorticosa ronde in cui non ci sono innocenti e colpevoli, ma solo esseri umani impegnati nell’arte del tirare avanti, dell’essere accettati, dell’uscire di casa a testa alta.

“Solo chi non spera più nulla può davvero incominciare a vivere”. Si chiude, in esergo, con questa straziante e al contempo illuminante massima, che chiude una parentesi e spalanca un orizzonte, quello di Lucien, quello di chi scrive, quello di ogni essere umano. Applausi, scroscianti.

Quinlan, Donato D’Elia

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