Cinemapiù – Sergio Citti
giovedì 08 Gennaio 2009, 23:12
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Da «Accattone» a «Vipera»: il cinema scellerato di Sergio Citti
di Gaetano Gentile

La prima cosa che viene in mente quando si sente nominare Citti, oltre alla ormai proverbiale confusione tra Sergio (regista) e Franco (attore), è Pasolini. Ciò ha un suo fondamento, ma non è tutto.
Certo è il fatto che Sergio Citti è stato praticamente coautore di Ragazzi di vita e Una vita violenta, i romanzi che fecero esplodere il caso letterario Pasolini alla fine degli anni ’50, che ha avuto una parte fondamentale nella scrittura e nella realizzazione di Accattone, un film ormai oggetto di studio in tutte le cineteche, e che ha collaborato in vari modi a quasi tutta la filmografia di Pasolini.
Insomma, in un excursus che va da Ragazzi di vita a Salò, il nome di Sergio Citti è legato a quello dell’intellettuale friulano, che seppe attingere a piene mani da quello che definiva, un po’ riduttivamente, il suo “vivente lessico romanesco”, e a cui lo legava una profonda amicizia. Così Pasolini diceva di Citti:

Pongo Sergio tra Sandro Penna e Moravia. A Sandro Penna egli assomiglia per la totale e quasi santa libertà, l’anarchia assolutamente priva di aggressività, così naturale da non opporsi in alcun modo allo stato di vita degli altri (tutti schiavi!) come alternativa: a Sergio non salterebbe mai in mente di pretendere di offrirsi come esempio o di fare l’apostolato (ch’è sempre terroristico) della sua anarchia. A Moravia egli assomiglia per la rapidità dell’intelligenza e il pessimismo.

Sarebbe interessante approfondire la simbiosi-interazione tra Pasolini e Citti, ossia tra due culture opposte (borghese e proletaria, “scritta” e “orale”, egemone e subalterna) ma convergenti, che si completano l’una con l’altra. E, invece di sbarazzarsi di Citti con l’appellativo “pasoliniano”, valutare quanto cittiano sia stato Pasolini.
A ribadire l’autonomia del Citti autore, ci sono una serie di film, ognuno straordinario per motivi diversi, non inscrivibili a nessun genere, se non a quello personalissimo frutto della sua visione della vita grottesca e disincantata. A partire dall’esordio di Ostia (1970), storia di un amore fraterno insidiato da una donna-demone che Lino Miccichè definisce uno dei migliori esordi postsessantotteschi, a Storie scellerate (1973), intreccio di amori, castrazioni e morte nella Roma papalina raccontato da due condannati a morte (secondo Marco Giusti “bellissimo, ma così violento e scatenato che è difficile non considerarlo un film maledetto”), a Casotto (1977), che vince la sfida di un film tragicomico senza storia, girato tutto in un ambiente – un casotto di una spiaggia appunto – un kammerspiel balneare che è ormai un film culto, nuovo a ogni visione, come Febbre da cavallo (Steno, 1976) o Morire gratis (S. Franchina, 1968), di quelli attorno ai quali si organizzano serate di amici, a Duepezzidipane (1979), nostalgia dei tempi andati in un confronto amarissimo tra anni Cinquanta e Settanta, attraverso la vicenda di un figlio con due padri, risolta con un personalissimo uso della musica diegetica, a Il minestrone (1981), un viaggio collettivo dietro un’atavica fame, ai tredici telefilm della serie Sogni e bisogni (1983), orchestrati da Destino, Padreterno e Demonio, di cui cito almeno lo straniante-stralunato-struggente Verdeluna, a Mortacci (1989), sulla vita ambientata in un allegro cimitero, a I magi randagi (1997), toccante realizzazione del Porno-Teo-kolossal scritto anni prima con Pasolini, a Cartoni Animati (1998), triste apologo sui poveri impoveriti dal possesso, fino a Vipera, uscito solo a Roma, in un circuito alternativo.

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