Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno VENERDI’ 15 DICEMBRE 2023 ore 20.45
sabato 25 Novembre 2023, 11:47
Filed under: cinemapiù 41

TROPICAL MALADY
Sud Pralad

di Apichatpong Weerasethakul
con Banlop Lomnoi, Sakda Kaewbuadee
Tailandia.  2004  118′

Quando chiudiamo gli occhi, chiaramente vediamo il buio ma se fissiamo questo buio abbastanza a lungo emerge qualcosa. L’immagine viene da dentro, dalla nostra mente. Questo è ciò che ho voluto far vedere in Tropical Malady: la mente di un mondo che si adatta a un altro mondo. Il soldato riesce a vedere le immagini dell’altra parte, e continua a vedere se stesso. Si trova sul confine di due mondi.
Apichatpong Weerasethakul

Composto di due parti tra loro intimamente legate, Tropical Malady segue nella prima tranche la storia d’amore di Keng e Tong, un soldato e un contadino, e, attraverso la serena contemplazione di quadretti di ordinaria quotidianità, senza sottolineature di sorta, ne mostra il tranquillo, quasi idilliaco menage. Lo sguardo sui giorni della coppia, che è quello sulla vita di un Paese, diventa scrutare interrogativo in una seconda parte che modula su un registro completamente differente e che prende le mosse da una leggenda (uno sciamano khmer, trasformatosi in tigre, viene ucciso da un cacciatore e rimane prigioniero nel corpo dell’animale fantasma, destinato a cacciare a sua volta qualsiasi uomo osi inoltrarsi nel suo territorio), per farsi onirica riflessione sulle paure primarie e il valore dei ricordi (la malattia cui si riferisce il titolo è proprio la memoria delle persone amate).
Curatissimo sul piano figurativo (l’albero notturno rimane visione folgorante), Tropical Malady si dipana sinuoso tra tempi programmaticamente dilatati (una vera sfida per l’impaziente occhio occidentale), colpendo per il sontuoso rigore delle sequenze e per l’originalità di un impianto di indubbia suggestione che riesce a dirottare da un approccio realistico, anche se pieno di elementi anticipatori, a una deriva tutta simbolica che viaggia a metà strada tra la favola e il sogno (si è parlato di Lynch, non a caso, potendosi azzardare che la prima parte sia una rievocazione fatta nella seconda – del resto il film comincia nella giungla -).
Scommessa distributiva dell’Istituto Luce (alla coproduzione partecipa anche Fabrica), film di fruizione a dir poco difficile – per i suoi ritmi, per il senso sfuggente delle molte metafore, per il disinteresse dell’autore all’azione (la seconda parte è praticamente priva di dialogo) -, a serio rischio di esodo, Tropical Malady che mantiene, nell’edizione italiana, la lingua originale, è opera bifronte (i due protagonisti rappresentano due opposte realtà sociali, alla serenità lucente della prima parte fa riscontro l’oscurità inquieta della seconda), ma solo apparentemente scissa, una pellicola di alto spessore che prima spiazza e poi, all’uscita dal cinema, cresce invocando una seconda (terza, quarta) visione consapevole.
Premio speciale della giuria a Cannes 2004. Vincitore dei due massimi riconoscimenti al festival del cinema a tematiche omosessuali di Torino.

Anche se la storia ha una struttura lineare, Tropical Malady si sviluppa su due piani distinti che rappresentano due mondi molto diversi. Tuttavia questi mondi diversi sono collegati da personaggi che sarà il pubblico a decidere se siano o no gli stessi. Ciò che è essenziale sono i ricordi. I ricordi della prima parte convalidano la seconda e viceversa. Nessuna delle due esiste senza l’altra.
Apichatpong Weerasethakul

Gli Spietati, Luca Pacilio

Commenti disabilitati su Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno VENERDI’ 15 DICEMBRE 2023 ore 20.45


L’AFFIDO – UNA STORIA DI VIOLENZA venerdì 24 novembre 2023 ore 20.00
domenica 19 Novembre 2023, 12:31
Filed under: Iniziative,Senza categoria,Video

Jusqu’à la Garde
di Xavier Legrand
con Léa Drucker, Denis Menochet, Thomas Gioria, Mathilde Auneveux, Mathieu Saikal
Francia 2017 93′

Il valore di un film come L’affido – una storia di violenza non riguarda solo il fatto di affrontare il tema delle separazioni famigliari e della guerra che si scatena allorquando uno dei due genitori fatica ad accettare le conseguenze di questa realtà. Ciò che colpisce, e che deve aver convinto i giurati della Mostra del cinema ad assegnare al film il Leone d’argento per la miglior regia, è la maniera con la quale Xavier Legrand riesce a evitare la retorica che di solito scandisce le discussioni riguardo al problema. Niente di tutto questo ritroviamo in L’affido – una storia di violenza perché nel film il luogo della riflessione rimane fuori campo, assegnato allo spettatore quando le luci si accendono ed è tempo di lasciare la sala. Prima di allora c’è spazio solo per la tensione che procura il succedersi degli avvenimenti e l’incalzare della violenza – prima psicologica e poi materiale – messa in circolazione da Antoine (il minaccioso Denis Ménochet) nei confronti di Miriam, la ex moglie, e di Julien, il figlio minorenne, di cui la sentenza del giudice deve decidere i termini dell’affidamento.

L’inizio del film è a dir poco geniale, poiché il regista si diverte a confondere le acque con una lunga sequenza dibattimentale in cui la burocrazia del giudice e la dialettica tra le parti sembra aprire L’affido – una storia di violenza a due possibili sviluppi. Il primo, proprio del legal drama, volto ad approfondire le ragioni dell’uno e dell’altro, filtrandole attraverso i parametri legislativi, il secondo, invece, inteso a scoprire, con le forme del thriller, se le accuse (di violenza) della moglie nei confronti del marito siano vere oppure no. Quindi, da una parte a ragionare in termini giuridici, analizzando se l’apparato normativo sia ancora aderente alle evoluzioni dell’istituto familiare, dall’altra a portare la storia dalle parti di un intrattenimento avvincente e popolare, legato alla capacità di tenere sospesa fino all’ultimo la reale personalità dell’accusato.

La scelta di Legrand ricade invece su una terza via, avulsa da mediazioni esterne e, al contrario, concentrata sulla storia con un’istintualità che gli consente di evitare le derive a cui un’operazione del genere si prestava. La controprova di quello che diciamo si misura a più livelli: da quello narrativo, riempito in toto dal meccanismo di azione-reazione che scaturisce dall’ossessione del genitore nei confronti della propria famiglia, a quello dei contenuti, privati di un sottotesto che ragioni sul tema degli abusi famigliari, qui sostituito dalla pragmatica evidenza con la quale il film mette in scena i fatti; e finanche dal punto di vista teorico, dove, tolte di mezzo le forme di genere, è il controllo del dispositivo drammaturgico a permettere all’opera di risultare appassionante e tesa senza bisogno di ricorre a spettacolarizzazioni che svilirebbero la serietà con cui viene affrontata la faccenda. Concentrandosi esclusivamente sulle emozioni dei personaggi, L’affido – una storia di violenzanon fa mistero – rispetto alle incertezze iniziali – sulla reale natura dei personaggi e, anzi, è proprio l’esasperazione delle rispettive posizioni, da quella di carnefice assunta dal padre, a quella di vittime incarnata dalla moglie e dal figlio, a fare precipitare la situazione, trasformando la disputa in un incubo ad occhi aperti. In questo senso, uno dei punti di forza del film è la capacità degli attori di far vivere sulle proprie facce la follia e la paura che li attanaglia, con una menzione speciale per Thomas Gioria, il quale, nei panni di Julien dà vita a un’interpretazione da brivido, sicuramente una delle più meritevoli della Mostra. Ispirato a una storia vera e sviluppato da un precedente cortometraggio girato dallo stesso Legrand, L’affido – una storia di violenza ha vinto anche il premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” assegnato dalla Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia alla migliore opera prima.
Ondacinema, Carlo Cerofolini

Commenti disabilitati su L’AFFIDO – UNA STORIA DI VIOLENZA venerdì 24 novembre 2023 ore 20.00


La notte vogliamo essere libere, non coraggiose
domenica 19 Novembre 2023, 11:54
Filed under: Iniziative

iniziative volte a contrastare la violenza di genere

giovedì 23 e martedì 28 novembre 2023
alle ore 18.30, due serate di autodifesa a cura dell’ASD Family Fight Team presso la loro sede di via Trieste 75;

venerdì 24 novembre
–  ore 17.30inaugurazione della panchina rossa presso il giardino comunale a Begliano
–  ore 20.00: proiezione del film “L’Affido – Una storia di Violenza” – Sala Maggiore Centro Civico “Primo Levi” – via Trieste 12 (ingresso libero)

sabato 25 novembre Camminata in rosso, piccoli e grandi passi contro la violenza”: 
ritrovo alle ore 10.00 in piazza Venezia, partenza ore 10.30
lungo il percorso  sono previsti letture e intermezzi musicali 

Commenti disabilitati su La notte vogliamo essere libere, non coraggiose


Frammenti: François Ozon VENERDI’ 17 NOVEMBRE 2023 ore 20.45
lunedì 13 Novembre 2023, 10:54
Filed under: cinemapiù 41

FRANTZ
di François Ozon
con Pierre Niney, Paula Beer, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow
Francia   2016   113′

Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell’amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi.

Si parte anzitutto da un testo teatrale, L’Homme que j’ai tué di Maurice Rostand, già adattato sul grande schermo da Ernst Lubitsch come L’uomo che ho ucciso, uno dei pochi film del grande cineasta a non essere una commedia bensì un commovente pamphlet pacifista. E in Frantz, in concorso a Venezia 73, Ozon effettua una serie di cambiamenti significativi al testo di partenza, aggiunge una seconda parte francese, speculare alla prima, e soprattutto ne ribalta la prospettiva. L’opera teatrale, e coerentemente il film di Lubitsch, raccontano subito il segreto di Adrien e di conseguenza la narrazione sviluppa un senso di suspense hitchcockiana. Togliere quel momento permette a Ozon di mantenere fino a un punto più avanzato del racconto il senso del mistero e la sorpresa del suo svelamento, ma anche di conservare l’ambiguità e di giocare, eludendole, con le aspettative spettatoriali di chi conosce il suo cinema.

Non si può che intuire una storia di passione omosessuale tra i due soldati che militano tra i due fronti opposti, conoscendo le ossessioni dell’autore francese. Un dubbio che a tratti sembra sfiorare anche il padre di Frantz, un medico, anche all’interno della mentalità dell’epoca. Non sarà così, almeno formalmente. Ma nella scena con il cadavere di Frantz, nella trincea, Ozon infonde una carica di forte sensualità: il volto del soldato tedesco è bello, serafico, non sfigurato dalla morte. La tensione che si crea tra Adrien e il corpo è avvolta di grande tenerezza. Fascino che il regista recupera nel creare una tensione anche erotica tra Adrien e Anna, che sfocia nel bagno nel ruscello. Come non vedere nel corpo di Adrien bagnato che esce dall’acqua, con quei grandi mutandoni che aderiscono alle gambe, il corrispettivo maschile della Ludivine Sagnier, ma anche di Charlotte Rampling nella piscina in Swimming Pool, così come gli amori balneari che sbocciano in CinquePerDue – Frammenti di vita amorosa o in Giovane e bella, se non una Venere del Botticelli? E come non vedere, da un lato la storia di un doppio, di una sostituzione, di un uomo che visse due volte? Come non vederci un sottile e latente triangolo amoroso composto in uno dei vertici dalla morte?

Ozon in Frantz mantiene inalterato il forte impianto pacifista dell’opera originale e anzi lo arricchisce con nuovi elementi nella seconda parte, anche grazie alla sua posizione di uomo contemporaneo che sa che dopo gli eventi narrati c’è stata ancora un’altra guerra mondiale, e alla posizione di francese che non teme di evidenziare i passaggi cruenti della Marsigliese.
Ma in definitiva il film è l’ennesima variante del regista nell’ambito della satira della famiglia borghese mononucleare che si fonda sull’unione eterosessuale. Tali sono le due corrispettive famiglie dei protagonisti, quella tedesca dominata da un austero patriarca, figura alla Dreyer o alla Bergman, e quella francese che celebra i suoi fasti in un castello. È in questo contesto patriarcale che si sviluppa tanto il nazionalismo – lo Stato come superiore figura paterna – tanto la menzogna. Un mondo che si fonda sulle falsità, che tarpa le ali alle ambizioni dei figli. Un mondo che è così pronto ad accettare la bugia, anzi è la stessa famiglia di Frantz a stimolarla e metterla in bocca ad Adrien. La menzogna su cui si fonda il film che è anche metaforica del cinema stesso e dell’arte in generale.

François Ozon, nel suo secondo film in costume dopo Angel – La vita, il romanzo, riesce a incantare, a mesmerizzare con un impianto calligrafico, con un’alternanza, spontanea e allo stesso tempo magica di colore e di bianco e nero, che sfocia nel cromatismo pittorico alla Manet, e ancora nell’ambiguità di bellezza e tristezza, con una sorprendente fluidità nel passare da ricostruzione storica, a sogno, a elementi universali.
Quinlan, Giampiero Raganelli

Commenti disabilitati su Frammenti: François Ozon VENERDI’ 17 NOVEMBRE 2023 ore 20.45


Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 10 NOVEMBRE 2023 ore 20.45
lunedì 13 Novembre 2023, 10:51
Filed under: cinemapiù 41

KINETTA
di Yorgos Lanthimos
con Evangelia Randou, Aris Servetalis, Costas Xikominos, Hector Kaloudis
Grecia   2005.  95′

Dopo l’esordio al lungometraggio con O kalyteros mou filos (letteralmente “Il mio migliore amico”) commedia surreale sulle disavventure reali ed immaginarie di Konstadinos il regista greco Lanthimos dirige con Kinetta il suo primo lavoro personale, quasi programmatico dei successivi Kynodontas (Un certain regard, Cannes 2009) e Alpeis (Miglior sceneggiatura, Venezia 2011). Se con la sua opera prima, per certi versi accostabile al Solondz di Happiness, inscenava una commedia brillante dai toni dark, surreale, ma comunque godibile da un ampio pubblico con Kinetta rinuncia alla quasi totale visibilità della sua opera per iniziare un lavoro di scavo profondo nell’immagine e nella concezione dell’essere umano. La trama del film – qualora ve ne fosse una – narrerebbe di due uomini, un poliziotto ed un fotografo, che coinvolgono delle donne nel loro gioco di riproduzione fittizia e registrazione video di eventi violenti realmente accaduti o semplicemente immaginati. Una delle donne, cameriera di un albergo semideserto nella stagione invernale, si fa implicare dal “gioco” a tal punto da iniziare a simulare la propria morte anche in privato. Tutto si interrompe con l’arrivo dei primi vacanzieri sul finire dell’inverno.

I dialoghi si frantumano nei rumori ambientali, la telecamera – sempre mossa a mano – va spesso fuori fuoco e inquadra dettagli più o meno rilevanti lasciando intravedere in lontananza la scena in cui l’azione si svolge operando una depersonificazione dei soggetti defilati a confuse immagini di contorno. Sono quindi spesso dei dettagli a prendere il sopravvento e a dominare la scena grazie ad una narrazione che predilige il marginale ed il margine, la cornice che inquadra ed il mero attributo accidentale nel quale alla fine i personaggi si risolvono – l’uomo è il dettaglio. Andando così in direzione opposta ad un cinema inteso come intrattenimento per il pubblico – nel quale è fondamentale la complessiva intelligibilità degli eventi per poter comprendere il mondo descritto nella sua interezza, un mondo comprensibile e in quanto tale rassicurante – troviamo nell’idea di cinema che sta alla base di  Kinetta un realismo rappresentativo interrotto e sfuocato che procede per salti e “imperfezioni” e che nel riproporne visivamente la costante inadeguatezza ottiene la sua maggiore vicinanza con la vita stessa. Situandosi nel risultato tra la crudezza hanekeiana e la morbosità cronenberghiana Lanthimos trova il suo personale sentiero seguendo un’estetica dell’immagine imperfetta che perfettamente descrive l’inadeguatezza dell’uomo nella società contemporanea.

Un lungo discorso sottende tutto il film, ma articolato dalla grammatica delle immagini che annienta la parola pronunciata: concise affermazioni unilaterali, rari e stringati dialoghi lacerano la superficie del film – il più lungo di questi è la traduzione in greco di comuni parole slave. I personaggi smarriscono tanto la parola da perdere addirittura i nomi proprii (ennesimo elemento che  accomuna questo film a Kynodontas e Alpeis), ma il nome non è altro che il vessillo di una persona, come la parola stessa non è altro che un significante veicolo di significati. Le parole nella loro interscambiabilità tra un linguaggio e l’altro conducono il medesimo significato, gli individui – senza nome – nella loro interscambiabilità tra un atto e la sua replicazione conducono il medesimo senso. O meglio, i protagonisti di Kinetta vorrebbero replicare un atto per acquistare un senso di cui sono privi. Infatti, la possibilità di replicare praticamente ogni cosa (parole e esperienze formative in Kynodontas, addirittura la presenza di un essere umano in Alpeis) attraverso una meccanica della sostituzione è il filo rosso da seguire per raggiungere il cuore delle pellicole di Lanthimos. Uomini incapaci di provare emozioni proprie ne ricercano le tracce nell’inscenare, nel ripetere, interpretare tragici avvenimenti di cronaca, stupri, omicidi che nella loro reiterazione sono evidenti nel loro pallido bagliore di copie. Come un vuoto abisso è l’uomo di Lanthimos.

Kinetta – che è il nome di una località balneare nei pressi dell’istmo di Corinto, ma anche quello di una macchina da presa – è una delle più ostiche pellicole che vi potrà capitare di vedere non concedendo nulla alla fruibilità, ma nel continuo farsi inseguire dallo spettatore sembra sempre sfuggire ogni possibile de-finizione. Serve costanza per tenerne il passo e non lasciarsi sopraffare, serve un salto nel vuoto per sprofondare nella meraviglia. Un piccolo capolavoro invisibile.
OndaCinema, Simone Pecetta

Commenti disabilitati su Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 10 NOVEMBRE 2023 ore 20.45



arci