Frammenti
lunedì 13 Maggio 2024, 12:41
Filed under: cinempaiù 44

NICO, 1988
di Susanna Nicchiarelli
con Tryne Dyrholm, John Gordon Sinclair, Anamaria Marinca, Thomas Trabacchi, Karina Fernandez
Italia/Belgio   2017   93′

In uno straordinario scritto per il Village Voice del 1979, The White Noise Supremacists, Lester Bangs fa il punto su alcune tendenze di spacconaggine pseudo-nazi-razzista nell’ambiente musicale soprattutto new wave, proprio quella scena che aveva deciso di accogliere Nico nel suo percorso da solista, con gli album in larga parte clamorosi realizzati in complicità con John Cale, Brian Eno, Phil Manzanera. Tra i riferimenti principali, Bangs utilizza la versione agghiacciante dell’inno tedesco che Nico inserisce in chiusura di The End, album del 1974 (lo scrittore racconta di una versione dal vivo dell’inno, durante una performance della musicista al CBGB’s di New York).

Ecco, l’aspetto più sorprendente del lavoro di Susanna Nicchiarelli è la maniera con cui affronta l’ambiguità ideologica, e questa sorta di nazionalismo in misura inconsapevole, che facevano parte del carattere di Christa Päffgen: nel rapporto tra distacco e tenerezza con il manager inglese Richard (“l’avvocato ebreo”), nelle memorie di guerra della Berlino bombardata, o nelle reazioni impazzite in concomitanza delle esibizioni nei Paesi del blocco sovietico, Nicchiarelli esplicita quella stessa tensione non riconciliata nei confronti del Passato e dei propri demoni interiori, che ritrovi poi traslata in maniera così potente e disturbante nella produzione musicale di Nico del periodo.

Il pretesto è raccontare il tour dell’86-88 della musicista, in un on the road spezzato da brevissimi istanti di repertorio dall’Exploding Plastic Inevitable, lo show multimediale ideato da Warhol con i Velvet Underground vent’anni prima, un viaggio per l’Europa presto trasformato in una sorta di percorso di presa di coscienza riguardo alla complessa relazione irrisolta con il figlio Ari.
La regista ha mano felice nelle ricostruzioni di questa tournée in hotel scalcinati, locali di periferia, centri sociali, piazze di paese (Anzio!), in cui Nico condivide la propria passione per gli stupefacenti con la giovane band di musicisti che le viene messa a disposizione, di cui seguiamo anche amori e estemporanee vicende.

Fortunatamente, il racconto non assume mai il piglio spensierato del biopic musicale “su di giri”, ma mantiene la tonalità oscura del repertorio del periodo Marble Index/Desertshore – giovano parecchio i riusciti frammenti musicali con la riproposizione di brani non scontati di Nico (Janitor of Lunacy, My only child… l’unico istante reediano è una All tomorrow’s parties) nei fascinosi arrangiamenti di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, dove l’interprete Trine Dyrholm ha modo di donare la propria voce alle canzoni.

E’ indubbio infatti che una grande parte del magnetismo inaspettato del film sia merito dell’attrice, in grado di restituire un ritratto inedito dell’icona “maledetta”, molto lontano da quello della femme fatale bionda della Factory. Nicchiarelli semina nell’opera confessioni e riflessioni della donna attraverso espedienti come interviste radiofoniche, o improvvise aperture in istanti di intimità (come la cena a casa del fan romano Thomas Trabacchi), un po’ alla maniera dell’Amalric regista: chiaramente, non ne possiede la complessità teorica e lo sguardo stratificato, ma Nico, 1988 rivela, anche quando troppo appesantito da alcuni passaggi un po’ contriti (come l’ennesimo tentato suicidio di Ari), una sincerità che cattura, quella fragilità sfacciata di chi ha messo il cuore in ogni azzardo.

Sentieri Selvaggi, Sergio Sozzo 

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Frammenti: Illusioini perdute
lunedì 06 Maggio 2024, 10:36
Filed under: cinempaiù 44

ILLUSIONI PERDUTE
Illusions perdues
di Xavier Giannoli
con Banjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, Gérard Depardieu, André Marcon, Louis-Do de Lencquesaing
Francia   2021   141′

Lucien è un giovane poeta sconosciuto nella Francia del XIX secolo. Nutre grandi speranze ed è deciso a forgiare il proprio destino. Abbandonata la tipografia di famiglia nella città natìa, decide di tentare la sorte a Parigi sotto l’ala protettrice della sua mecenate. Lasciato presto a cavarsela da solo in questa meravigliosa città, il giovane scoprirà le macchinazioni in atto in un mondo che ubbidisce alla legge del profitto e della simulazione. Una commedia umana dove tutto può essere comprato o venduto, il successo letterario e la stampa, la politica e i sentimenti, la reputazione e l’anima…

Concentrandosi sulla parte centrale del trittico Illusioni perdute, pubblicato da Balzac tra il 1837 e il 1843, Xavier Giannoli realizza la sua personale versione dell’ascesa e caduta sociale ed economica di un plebeo a contatto con l’alta società, che ha nel Barry Lyndon di Stanley Kubrick il termine di paragone cinematografico più illustre e ineguagliabile. Nell’epoca della Restaurazione monarchica successiva all’avventurismo napoleonico, segmento della storia di cui il grande autore francese è contemporaneo e in cui ambienta la sua sterminata Commedia umana, tutto è in ridefinizione, dai valori morali alla standardizzazione classista dei rapporti amorosi. Ridefinizione che si rileverà essere un riflusso teso a cancellare ogni cambiamento favorito dalla riuscita Rivoluzione di poco antecedente, ma questo l’idealista Lucien Chardon (Benjamin Voisin) non lo sa ancora. Il suo cuore è gonfio di passione per madame de Bargeton (Cécile de France) che finanzia il suo desiderio di lasciare l’ubertosa (ma culturalmente inerte) provincia per tentare l’avventura letteraria nella capitale. Qui il giovane Lucien entrerà in contatto con il mondo del giornalismo prima che con quello degli editori, e dovrà sudare le proverbiali sette camicie perché la sua raccolta di poesie possa trovare la via delle stampe.

Giannoli e il suo cosceneggiatore Jacques Fieschi sfrondano episodi, adattano dialoghi, attualizzano situazioni, compiendo un lavoro magistrale che potrebbe rinunciare, in sede di premiazione nel Concorso veneziano, al premio dedicato solo per approdi più sostanziosi. Ne ottengono un copione brillante, perfettamente organizzato nei tempi e nelle battute, servito da un cast in stato di grazia (agli attori già nominati dobbiamo aggiungere, in sede di segnalazione, almeno Xavier Dolan, Jeanne Balibar e Gérard Depardieu, ognuno perfettamente calato nei panni d’epoca del personaggio assegnato, tante prime donne che fanno gioco di squadra). Il regista transalpino fa lo stesso, illustrando la sfarzose scenografie con uno stile mai sovrabbondante, sempre teso a cogliere l’espressione dei visi più che a intasare il campo con un complesso movimento di camera, una regia “invisibile” nel senso più nobile e classico del termine. Il risultato è un’opera di oltre due ore e venti minuti che fila via veloce come un treno nella notte, pregna di contenuti “alti” affidati a scambi di battute sapidi e taglienti, intrisa di feroce umorismo anche nel momento della tragedia, della caduta, della fine dei sogni. Nella parabola del provinciale a contatto con il bel mondo, Un grande uomo di provincia a Parigi è il titolo originale balzachiano, il cinefilo di stretta osservanza non può non rivedere echi (ed il cinema è un’arte meravigliosa anche per la sua capacità di riunire epoche e mondi diversi) del Marcello Rubini di felliniana memoria, quasi come se il film fosse un prequel de La dolce vita in altri tempi e altri spazi, ma con una tensione morale coincidente. Fellini-Flaiano-Pinelli avevano letto Balzac? Non è da escludere, ma è comunque un’altra storia…

Sul piano contenutistico, i temi del film sono di sconcertante attualità, e rappresentano una plastica dimostrazione della ricorsività ottundente del società del profitto, che Balzac vedeva nascere, e che non saremo noi, probabilmente, a vedere ancora morire. Il giornale progressista in cui Lucien approda non ha nessuna etica professionale, è semplicemente in vendita al miglior offerente pezzo dopo pezzo, mentre quello conservatore sbandiera senso del dovere. Un paradosso? Solo a prima vista, perché la conservazione è finanziata dai padroni del vapore, mentre l’approccio scafato e demolitore ha bisogno di continue sovvenzioni. Sotto la lente d’ingrandimento finiscono tutti, critici, nobili e banchieri, padri e figli di un relativismo morale di complessa lettura e immediata comprensione, per rimanere nel campo dell’accettabile paradosso. In questa vorticosa ronde in cui non ci sono innocenti e colpevoli, ma solo esseri umani impegnati nell’arte del tirare avanti, dell’essere accettati, dell’uscire di casa a testa alta.

“Solo chi non spera più nulla può davvero incominciare a vivere”. Si chiude, in esergo, con questa straziante e al contempo illuminante massima, che chiude una parentesi e spalanca un orizzonte, quello di Lucien, quello di chi scrive, quello di ogni essere umano. Applausi, scroscianti.

Quinlan, Donato D’Elia

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Frammenti: DELTA
lunedì 29 Aprile 2024, 11:07
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di Michele Vannucci
con Alessandro Borghi, Luigi Lo Cascio, Emilia Scarpati Fanetti, Denis Fasolo
Italia   2022   105′

La livida palude e le sue acque limacciose su cui il film si apre, con Elia (Alessandro Borghi) che con il suo barchino prova a sfuggire alla vista dell’elicottero che ronza sopra la sua testa, costituiscono i caratteri fondanti del film di Vannucci fin dal suo incipit. Il personaggio è ricercato ed è la palude che lo protegge poiché in quell’ambiente si muove agilmente e con maturata sapienza. Al contempo questi elementi, così estranei o comunque rari per la cinematografia italiana, diventano paesaggio radicale, stabile e metaforico di una condizione di precaria esistenza per questo western nostrano fatto di sentimenti forti, violenza sotterranea e spesso repressa, disagio e solitudine. In Delta, secondo lungometraggio di Michele Vannucci, solo per assonanze tornano alla mente i film paludosi dentro i quali si sono consumati analoghi inseguimenti, analoghe atmosfere (No Mercy o Southern Comfort ad esempio), riuscendo in questo a conservare una sua propria originalità non solo narrativa, molto legata al territorio dentro il quale trova il suo sviluppo, ma anche nella sua complessiva fattura mescolando con sapienza cinema di genere, tra melodramma e noir sui generis in quel confine con il già citato western, ma con un occhio ai temi di un territorio fragile e protetto, violato e in pericolo.

Elia è un pescatore di frodo che insieme ad altri amici dalla Romania arrivano in Italia sul delta del Po tra Romagna e Veneto per assicurarsi una pesca fruttuosa sul mercato clandestino. Elia abitava in quei luoghi ed è dovuto andare via per circostanze sconosciute. I pescatori del luogo insorgono contro i bracconieri che senza rispettare le regole, da loro invece rigidamente osservate per proteggere l’ecosistema e assicurare la proliferazione ittica, rompono l’equilibrio già fragile impoverendo e distruggendo le risorse. Tra di loro i due fratelli Osso (Luigi Lo Cascio) e Nina (Greta Esposito) legati a quei luoghi. Osso è un temporeggiatore, crede nella trattativa e odia la violenza. Nina è sanguigna, impulsiva e cede con istintivo trasporto alle armi estreme dello scontro. Tra di loro qualcuno gioca sporco e trae profitto dalle attività illegali di Elia e dei suoi compagni. Ma Elia si innamora, corrisposto, di Anna (Emilia Scarpati Fanetti) che ha alle spalle una storia con Osso. Da qui il crescere del dramma irreversibile.

Quella pianura d’acqua e terra dai colori lividi e uniformi, che riflette una più ampia e per certi versi spettrale precarietà dell’esistenza stessa, finisce per colmare di sé l’intera operazione, diventando al contempo visione tragica di un ecosistema in crisi che porta con sé i destini di un’intera comunità, che nello spirito di una identità fortemente rivendicata lavora a difesa dei luoghi in solitudine, lontano da ogni reale tutela. Delta sa restituire quello sgomento che i luoghi estremi sanno diffondere e far vivere, nei quali il cinema ha saputo trovare i caratteri forti da raccontare. L’Elia di Alessandro Borghi è uno di questi, qui quasi animalesco con dentro ancora i caratteri forti del Primo re di Rovere – anch’egli coinvolto nell’operazione – e seppure caratterialmente trasformato, resta quel personaggio burbero che sembra sceso dalle montagne di Cognetti per approdare alla liquida terra piatta tra Rovigo e Ferrara. Diverso discorso per Osso, un inedito Luigi Lo Cascio con uno straniante accento romagnolo che sembra sradicarlo da ogni suo precedente per imporlo a una nuova attenzione. Antagonista/protagonista, violento/non violento, il suo personaggio, chiave dell’intera vicenda, vive quella stessa liquidità dei luoghi in una inattesa mutazione e in una ricerca di solitaria vendetta che ricorda il piccolo borghese di Monicelli.

Anche qui, dunque, si lavora sugli estremi limiti non solo dei generi, in un amalgama non scontato tra delusioni d’amore e sfinenti inseguimenti tra i fanghi e le acque opache di una palude insidiosa, tra nebbia e gelido nascere delle albe. Ma in una visione d’insieme è il paesaggio, anche questo estremo di quel margine dove si addensano i conflitti, che sa farsi protagonista nella sua labirintica densità come non troppo spesso accade nel cinema italiano dei nostri giorni. Delta si presenta quindi come un film di genere, ormai raro oggetto nel cinema italiano, tranne che per le commedie, ma che ha l’ambizione, ben riposta, di volere costituire anche un film su un ambiente inesplorato, una possibile indagine sull’annidarsi di un male quasi invisibile e clandestino che nessuna cronaca sembra raccontare. Un film anche brutale nella sua radicalità identitaria, teso come un thriller e opaco come l’acqua limacciosa che lo permea.
Duels, Tonino De Pace

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