Lost in translation – 28.03.2008
martedì 18 Marzo 2008, 21:40
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USA-Giap.   2003   102’
di: Sofia Coppola
con: Bill Murray, Scarlett Johansson, Akiko Takeshita, Catherine Lambert, Giovanni Ribisi
“Lost in translation” di Sofia Coppola è un valzer platonico e adolescente tra un uomo di cinquant’anni, attore di successo, e una ventenne appena laureata, di una anonima e conturbante bellezza. Si trovano a Tokyo, proprio nel tempio della modernità, lui per fare la pubblicità di un whisky, lei al seguito del giovane marito, sempre via per lavoro. Sono soli e circondati dall’imbecillità del talento tecnologico in un hotel d’avanguardia in cui tutto è il lusso inutile dell’elettronica più avanzata, della comodità superflua, dell’abolizione del libero arbitrio e omologazione dei piaceri e dei fastidi. È così che le tende delle camere s’abbassano, come un inchino orientale, appena il sole vi entra, impedendo altre esigenze che non siano il piacere dell’oscurità. È in questa “Playtime”, quarant’anni dopo, che la Coppola ripesca l’ingenuo e il giovanile, l’amore appena sognato e non dichiarato. E non a caso sceglie Bill Murray, un uomo con la faccia impunita di un bambino che non vuole crescere e Scarlet Johansonn, la cui bellezza non è fatale, né travolgente, ma semplice e immediata. Si incontrano nell’ascensore, si sorridono, poi di nuovo al bar alzano i bicchieri in segno di saluto, e poi ancora di notte in un piano bar deserto, unici insonni e straniati stranieri. La Coppola li segue con grazia e ritmi lenti, come se raccontasse l’amore al «tempo delle mele», l’innamoramento degli adolescenti, che procede per attimi, piccolissimi segnali, sguardi trattenuti e fatalmente contraccambiati, casuali sfioramenti e sorrisi fugati. Non ha fretta, perché non vuole arrivare da nessuna parte, ma solo rompere l’automatismo e il meccanico attraverso il gioco. Ora i due ballano intorno alle loro timidezze. Si sono trovati simpatici e iniziano a perlustrare la città come in un wendersiano “Viaggio a Tokyo”, ma di rincorse e karaoke, sale giochi e feste nottambule. E alla fine in hotel si trovano sdraiati castamente nel letto, uno a fianco all’altro, e i piedi quasi si accarezzano mentre vedono in tv “La dolce vita” di Fellini. Sono, anche se non se ne sono accorti, i protagonisti di un “Breve incontro” alla David Lean. Sono puro cinema, perché proiezione di un desiderio puro e adolescenziale, casto e platonico. Sono l’infanzia del cinema assediato dalla contemporaneità dell’automatismo e dell’omologazione. Ecco: ci sono film, e tutti quelli che amano il cinema ne hanno una lista segreta, che dicono cose, ma solo a noi, che raccontano storie, ma solo per noi, che parlano a tutti, ma sono «nostri». Strana e magica schizofrenia del cinema che, ormai sempre, vuole piacere a tutti ma che qualche volta, e sempre più di rado, si piega su se stesso, si fa «piccolo», pur affrontando temi grandi e da grandi, e arriva a toccare l’individuo, l’intimo, il biografico. Ognuno ha il proprio film e lo tiene segreto, per pudore, per gelosia, per vergogna. Vergogna di vedersi e sentirsi scoperti di avere amato un film che non si crede importante, ma solo privato. “Lost in translation” appartiene a questa categoria di film: sono di tutti, ma appartengono a noi stessi. Il motivo di questo fatale coincidere è lasciato alle leggi del desiderio. La Coppola cerca l’archetipo dell’infanzia (e del cinema) attraverso il gioco e l’amore, anche quando è platonico in una storia che rompe la successione e la ripetizione automatica di comportamenti e di destini attraverso un evento, un incontro, un piccolo miracolo.
l’Unità, Dario Zonta

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