lunedì 13 Novembre 2023, 10:54
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FRANTZ di François Ozon con Pierre Niney, Paula Beer, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow Francia 2016 113′
Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell’amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi.
Si parte anzitutto da un testo teatrale, L’Homme que j’ai tué di Maurice Rostand, già adattato sul grande schermo da Ernst Lubitsch come L’uomo che ho ucciso, uno dei pochi film del grande cineasta a non essere una commedia bensì un commovente pamphlet pacifista. E in Frantz, in concorso a Venezia 73, Ozon effettua una serie di cambiamenti significativi al testo di partenza, aggiunge una seconda parte francese, speculare alla prima, e soprattutto ne ribalta la prospettiva. L’opera teatrale, e coerentemente il film di Lubitsch, raccontano subito il segreto di Adrien e di conseguenza la narrazione sviluppa un senso di suspense hitchcockiana. Togliere quel momento permette a Ozon di mantenere fino a un punto più avanzato del racconto il senso del mistero e la sorpresa del suo svelamento, ma anche di conservare l’ambiguità e di giocare, eludendole, con le aspettative spettatoriali di chi conosce il suo cinema.
Non si può che intuire una storia di passione omosessuale tra i due soldati che militano tra i due fronti opposti, conoscendo le ossessioni dell’autore francese. Un dubbio che a tratti sembra sfiorare anche il padre di Frantz, un medico, anche all’interno della mentalità dell’epoca. Non sarà così, almeno formalmente. Ma nella scena con il cadavere di Frantz, nella trincea, Ozon infonde una carica di forte sensualità: il volto del soldato tedesco è bello, serafico, non sfigurato dalla morte. La tensione che si crea tra Adrien e il corpo è avvolta di grande tenerezza. Fascino che il regista recupera nel creare una tensione anche erotica tra Adrien e Anna, che sfocia nel bagno nel ruscello. Come non vedere nel corpo di Adrien bagnato che esce dall’acqua, con quei grandi mutandoni che aderiscono alle gambe, il corrispettivo maschile della Ludivine Sagnier, ma anche di Charlotte Rampling nella piscina in Swimming Pool, così come gli amori balneari che sbocciano in CinquePerDue – Frammenti di vita amorosa o in Giovane e bella, se non una Venere del Botticelli? E come non vedere, da un lato la storia di un doppio, di una sostituzione, di un uomo che visse due volte? Come non vederci un sottile e latente triangolo amoroso composto in uno dei vertici dalla morte?
Ozon in Frantz mantiene inalterato il forte impianto pacifista dell’opera originale e anzi lo arricchisce con nuovi elementi nella seconda parte, anche grazie alla sua posizione di uomo contemporaneo che sa che dopo gli eventi narrati c’è stata ancora un’altra guerra mondiale, e alla posizione di francese che non teme di evidenziare i passaggi cruenti della Marsigliese. Ma in definitiva il film è l’ennesima variante del regista nell’ambito della satira della famiglia borghese mononucleare che si fonda sull’unione eterosessuale. Tali sono le due corrispettive famiglie dei protagonisti, quella tedesca dominata da un austero patriarca, figura alla Dreyer o alla Bergman, e quella francese che celebra i suoi fasti in un castello. È in questo contesto patriarcale che si sviluppa tanto il nazionalismo – lo Stato come superiore figura paterna – tanto la menzogna. Un mondo che si fonda sulle falsità, che tarpa le ali alle ambizioni dei figli. Un mondo che è così pronto ad accettare la bugia, anzi è la stessa famiglia di Frantz a stimolarla e metterla in bocca ad Adrien. La menzogna su cui si fonda il film che è anche metaforica del cinema stesso e dell’arte in generale.
François Ozon, nel suo secondo film in costume dopo Angel – La vita, il romanzo, riesce a incantare, a mesmerizzare con un impianto calligrafico, con un’alternanza, spontanea e allo stesso tempo magica di colore e di bianco e nero, che sfocia nel cromatismo pittorico alla Manet, e ancora nell’ambiguità di bellezza e tristezza, con una sorprendente fluidità nel passare da ricostruzione storica, a sogno, a elementi universali. Quinlan, Giampiero Raganelli
Commenti disabilitati su Frammenti: François Ozon VENERDI’ 17 NOVEMBRE 2023 ore 20.45
lunedì 13 Novembre 2023, 10:51
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KINETTA di Yorgos Lanthimos con Evangelia Randou, Aris Servetalis, Costas Xikominos, Hector Kaloudis Grecia 2005. 95′
Dopo l’esordio al lungometraggio con O kalyteros mou filos (letteralmente “Il mio migliore amico”) commedia surreale sulle disavventure reali ed immaginarie di Konstadinos il regista greco Lanthimos dirige con Kinetta il suo primo lavoro personale, quasi programmatico dei successivi Kynodontas (Un certain regard, Cannes 2009) e Alpeis (Miglior sceneggiatura, Venezia 2011). Se con la sua opera prima, per certi versi accostabile al Solondz di Happiness, inscenava una commedia brillante dai toni dark, surreale, ma comunque godibile da un ampio pubblico con Kinetta rinuncia alla quasi totale visibilità della sua opera per iniziare un lavoro di scavo profondo nell’immagine e nella concezione dell’essere umano. La trama del film – qualora ve ne fosse una – narrerebbe di due uomini, un poliziotto ed un fotografo, che coinvolgono delle donne nel loro gioco di riproduzione fittizia e registrazione video di eventi violenti realmente accaduti o semplicemente immaginati. Una delle donne, cameriera di un albergo semideserto nella stagione invernale, si fa implicare dal “gioco” a tal punto da iniziare a simulare la propria morte anche in privato. Tutto si interrompe con l’arrivo dei primi vacanzieri sul finire dell’inverno.
I dialoghi si frantumano nei rumori ambientali, la telecamera – sempre mossa a mano – va spesso fuori fuoco e inquadra dettagli più o meno rilevanti lasciando intravedere in lontananza la scena in cui l’azione si svolge operando una depersonificazione dei soggetti defilati a confuse immagini di contorno. Sono quindi spesso dei dettagli a prendere il sopravvento e a dominare la scena grazie ad una narrazione che predilige il marginale ed il margine, la cornice che inquadra ed il mero attributo accidentale nel quale alla fine i personaggi si risolvono – l’uomo è il dettaglio. Andando così in direzione opposta ad un cinema inteso come intrattenimento per il pubblico – nel quale è fondamentale la complessiva intelligibilità degli eventi per poter comprendere il mondo descritto nella sua interezza, un mondo comprensibile e in quanto tale rassicurante – troviamo nell’idea di cinema che sta alla base di Kinetta un realismo rappresentativo interrotto e sfuocato che procede per salti e “imperfezioni” e che nel riproporne visivamente la costante inadeguatezza ottiene la sua maggiore vicinanza con la vita stessa. Situandosi nel risultato tra la crudezza hanekeiana e la morbosità cronenberghiana Lanthimos trova il suo personale sentiero seguendo un’estetica dell’immagine imperfetta che perfettamente descrive l’inadeguatezza dell’uomo nella società contemporanea.
Un lungo discorso sottende tutto il film, ma articolato dalla grammatica delle immagini che annienta la parola pronunciata: concise affermazioni unilaterali, rari e stringati dialoghi lacerano la superficie del film – il più lungo di questi è la traduzione in greco di comuni parole slave. I personaggi smarriscono tanto la parola da perdere addirittura i nomi proprii (ennesimo elemento che accomuna questo film a Kynodontas e Alpeis), ma il nome non è altro che il vessillo di una persona, come la parola stessa non è altro che un significante veicolo di significati. Le parole nella loro interscambiabilità tra un linguaggio e l’altro conducono il medesimo significato, gli individui – senza nome – nella loro interscambiabilità tra un atto e la sua replicazione conducono il medesimo senso. O meglio, i protagonisti di Kinetta vorrebbero replicare un atto per acquistare un senso di cui sono privi. Infatti, la possibilità di replicare praticamente ogni cosa (parole e esperienze formative in Kynodontas, addirittura la presenza di un essere umano in Alpeis) attraverso una meccanica della sostituzione è il filo rosso da seguire per raggiungere il cuore delle pellicole di Lanthimos. Uomini incapaci di provare emozioni proprie ne ricercano le tracce nell’inscenare, nel ripetere, interpretare tragici avvenimenti di cronaca, stupri, omicidi che nella loro reiterazione sono evidenti nel loro pallido bagliore di copie. Come un vuoto abisso è l’uomo di Lanthimos.
Kinetta – che è il nome di una località balneare nei pressi dell’istmo di Corinto, ma anche quello di una macchina da presa – è una delle più ostiche pellicole che vi potrà capitare di vedere non concedendo nulla alla fruibilità, ma nel continuo farsi inseguire dallo spettatore sembra sempre sfuggire ogni possibile de-finizione. Serve costanza per tenerne il passo e non lasciarsi sopraffare, serve un salto nel vuoto per sprofondare nella meraviglia. Un piccolo capolavoro invisibile. OndaCinema, Simone Pecetta
Commenti disabilitati su Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 10 NOVEMBRE 2023 ore 20.45