Mortacci – 13.03.2009 ore 20.30
giovedì 12 Marzo 2009, 18:54
Filed under: Cinemapiù 26,Video

It.   1989   102′
di: Sergio Citti
con: Vittorio Gassman, Mariangela Melato, Sergio Rubini, Carol Alt, Malcolm McDowell, Andy Luotto, Alvaro Vitali, Nino Frassica, Aldo Giuffré
Prima di entrare definitivamente nell’Aldilà, i morti passano un periodo in una specie di limbo dal quale si dipartono solo quando, tra i vivi, non c’è più nessuno che si ricordi di loro. Scritta con David Grieco e Vincenzo Cerami, è una collana di storie cui fa da mastice, da vivo, il trucido, affabile, cinico custode del cimitero. Un V. Gassman che fa il verso a un samurai povero. Brava M. Melato in una doppia parte briosa ed energica.
Il Morandini

La farsa e la tragedia vivono in un costante equilibrio nel cinema di Sergio Citti, equilibrio precario, sempre pronto a deflagrare in una risata liberatoria, in uno sberleffo anarchico, a precipitare nel dramma umano. E’ un cinema crepuscolare che si nutre di un mondo che non esiste più, un sogno, e proprio in quanto sogno aleggia nel tempo e nello spazio, lontano da ogni tentazione di realismo, troppo viscerale e onesto per aggrapparsi alla superficie vischiosa e intellettualistica del surrealismo.
“Mortacci” è un film del 1989, è la storia dei morti che abitano un cimitero, della loro vita da morti, di come sono morti. L’affabulazione compie il suo percorso dal particolare del racconto di ogni singolo personaggio, di ogni morto, fino a ricomporre un quadro corale che si permea di una visione della vita e della morte mai disperata, da epicureo, quale Citti si è spesso definito; in un’intervista2 rilasciata a Sergio Toffetti parlando di “Storie scellerate” il regista parla della propria visione della morte come “non una cosa brutta, negativa, ma una cosa normale, allegra, “viva”, perchè è parte della vita”
Le immagini nel cinema di Citti fioriscono dalle parole, dal racconto, da sempre il regista si è definito un narratore, una sorta di menestrello di borgata che porta in sé tutto il sapere di una radicata tradizione orale. Citti stesso afferma: ”cerco di fare il cinema come se fosse un racconto, una favola, di raccontarla così come se fosse a voce, a braccio“;3. In “Mortacci” la storia di ogni personaggio muove dall’evocazione, supportata da un leggero carrello in avanti, per farci entrare nel falso mondo del flashback, gemmazione della parola, menzogna del passato nella falsità della vita, rappresentata da un cinema che altro non è che finzione della finzione. Il rifiuto di ogni tautologia sta alla base del cinema di Citti, ed è proprio in questa ottica che si deve valutare l’aggettivo “naif” che spesso è ricorso in certa critica borghese, epiteto “razzista”, come aveva affermato Pasolini, che celava lo sguardo superbo e un po’ sdegnato della cultura dominante rispetto a una cultura subalterna, borgatara, sguaiata, ma piena di valore, di fame e di vita. Non inganna lo spettatore Citti, al contrario lo conduce nel mondo da favola del suo cinema, dove i desideri qualche volta si materializzano, dove sempre si è sospesi in un universo costruito, onirico, allucinato, pastorale.
La favola sui morti di Citti procede col ritmo lento del narrare, lasciando a ciascun attore il suo spazio di libertà, una libertà che cresce nella morte, uno sguardo distaccato e sereno, che contempla la vita, la pochezza degli esseri umani, il loro essere inesorabilmente incastrati nelle convenzioni, nella miseria, morale prima di tutto, nella vanità nel suo reiterarsi senza fine. Esemplare a tal proposito l’episodio di Malcolm McDowell, attore che interpreta un attore e che ripropone come in uno spettacolo teatrale, vero e falso al tempo stesso, poiché di un attore si tratta, pathos amoroso.
La morte voluta-imposta del soldatino Rubini si svolge in modo semplice, in linea con la visione del trapasso per Citti, entra in conflitto con la spettacolarizzazione che viene fatta dai vivi, dal surplus di senso e al tempo stesso di spietata cattiveria di cui è oggetto la morte di uomo nel mondo dei vivi, grottesca e allucinata visione cui fa da contrappeso la semplicità dell’aldilà, dove convivono sullo stesso piano attori e personaggi provenienti dalle più disparate realtà. Citti delinea un mondo dei morti davvero egualitario, senza distinzioni di classi, di estrazione sociale; attori e personaggi provenienti delle più disparate realtà finiranno per convivere tutti insieme, accomunati dalla morte e dal ricordo che ancora i vivi nutrono verso di loro, unico filo che li tiene ancora sospesi in un limbo gioioso, fino all’estinguersi dell’ultima memoria per evaporare in un altrove che Citti lascia irrisolto, non visto, offuscato dal vapore, dalla nebbia di una libera indeterminatezza.
Sara Del Santo

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Il minestrone – 27.02.2009 ore 20.30
martedì 17 Febbraio 2009, 19:49
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It.   1981   56′ + 51′ + 57′
di: Sergio Citti
con: Roberto Benigni, Franco Citti, Ninetto Davoli, Daria Nicolodi, Fabio Traversa, Giorgio Gaber, Olimpia Carlisi

Due pellegrini affamati partono da Roma verso il Nord, attraverso la campagna; lungo la strada altri si aggiungono a loro, ciascuno diverso dall’altro, ma accomunati dal bisogno di cibo. Scritta con Vincenzo Cerami, è una fiaba comico-poetica, dominata dallo sguardo dal basso del suo autore: distaccato, affettuoso, semplice eppur misteriosamente trasfiguratore. È lo sguardo di un anarchico epicureo che guarda il mondo come se per istinto (o antica saggezza?) sapesse già tutto.
Il  Morandini

httpv://www.youtube.com/watch?v=-NIuhZCkJT8

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Casotto – 13.02.2009 ore 20.30
sabato 07 Febbraio 2009, 16:56
Filed under: Cinemapiù 26,Video

Italia 1977 100’
di: Sergio Citti
con: Jodie Foster, Luigi Proietti, Ugo Tognazzi, Paolo Stoppa, Michele Placido, Mariangela Melato, Ninetto Davoli,vCatherine Deneuve

“Mi è venuto il sospetto che non si guardi più per strada, che non si veda più cosa fa realmente la gente. Tanto meno al cinema. Allora mi sono detto: facciamo un film in cui non succede niente, così forse si imparerà di nuovo a guardare attorno a sé” (Sergio Citti).
Da un racconto di Vincenzo Cerami. Una ventina di persone si spogliano nella stessa cabina – la n. 19 – di una spiaggia libera di Ostia in una calda domenica d’agosto. Dopo vari episodi un acquazzone improvviso costringe tutti a un frettoloso ritorno. Con un colpo di genio pratico e poetico Citti risolve in una mossa sola 3 problemi: il basso costo, le esigenze commerciali, un’originale struttura drammatica. Allegria crudele, pessimismo ilare, ironia blasfema.
Il Morandini 2007

httpv://www.youtube.com/watch?v=3tuG-B1CeOs

Casotto, un titolo incasinato
Il titolo ha diversi significati. Per chi conosce il lessico romanesco, i casotti sono quegli spogliatoi collettivi che si affittano negli stabilimenti balneari o nelle grandi spiagge gestite dal comune (il paesaggio mediterraneo descritto dalla panoramica a trecentosessanta gradi che apre il film ci riconduce alle grandi spiagge dette ‘I cancelli’, sulla litoranea che va da Ostia a Torvajanica, a ridosso della grande macchia di Castelporziano, chiuse l’inverno da enormi cancelli (la stessa zona dove in Ecce bombo Nanni Moretti e gli amici aspettano invano l’alba), quindi meta di un ceto sociale non certo tra i più abbienti. Ma casotto vuol anche dire confusione, caciara, è quasi una pudica contrazione di ‘casino’, che è un suo sinonimo, e indica le case di tolleranza chiuse con la legge Merlin del 1954 (e sostituite oggi da centri relax, saune, bagni turchi, body massage tailandesi), ultimamente tornate alla ribalta per il dibattito sulla prostituzione scatenato dalle dichiarazioni di Berlusconi (ma le reti Mediaset non basano i loro varietà sulla profusione di ‘tette e culi ballanti’?). Voler incasellare il film in un genere è ardua impresa. Un po’ commedia, un po’ tragedia, attraversato da lampi di surreale e grottesco, con una (non) storia che l’autore trae dal movimento delle comparse sullo sfondo delle inquadrature balneari di Una domenica d’agosto di Luciano Emmer.  

Casotto, la produzione
Il 2 novembre del 1975 è una data che segna una cesura netta nell’attività cinematografica di Sergio Citti, che impiegherà due anni per tornare dietro la macchina da presa. Con Salò al montaggio (di cui aveva scritto la prima sceneggiatura insieme a Pupi Avati), Sergio non resta comunque inattivo: scrive per Giulio Paradisi Ragazzo di borgata, collaborando anche al casting, cura l’adattamento dei dialoghi e il doppiaggio di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, scrive il soggetto di Qualcosa di biondo, realizzato poi da Maurizio Ponzi, e collabora ai dialoghi e al montaggio di Puttana galera! Colpo grosso al penitenziario di Gianfranco Piccioli. Il ritorno dietro la macchina da presa avverrà con Casotto, il primo film di cui Pasolini non conosceva neppure l’idea di partenza (mentre sapeva quella di Duepezzidipane e Mortacci, che sono film tutti di Sergio), film che, seppur risolto in chiave comica, si distingue nettamente dalla classica commedia all’italiana, e dalla commedia erotica alla Giovannona coscialunga… allora di grande successo commerciale. Il film viene prodotto a basso costo da due giovani produttori, Mauro Berardi e Gianfranco Piccioli della Parva Cinematografica. La conoscenza con Piccioli nasce sul set di Puttana galera.

Ricorda Piccioli:
Puttana galera […] rientrava quasi a pieno titolo nel genere della commedia all’italiana. È proprio in quella occasione che cominciò il contatto con Citti, perché il fratello Franco era attore nel mio film. Poi Sergio era già un mito per me in quel momento: avevo visto Ostia, di una bellezza e di una profondità incredibile, e Storie scellerate. L’incontro con i due fratelli fu, così, eccezionale, in più avvolto dalla mitologia pasoliniana. Sergio allora veniva spesso sul set di Puttana galera a trovare il fratello, ma era nato anche un rapporto di reciproca stima e di affetto. Mi aiutò anche nella fase di montaggio e di doppiaggio del film: mi dava dei suggerimenti, per esempio sui colori. Espressioni molto originali: la cultura di Sergio è sempre stata molto particolare, specialmente per quell’ambientazione nel mondo del penitenziario, mi fu così anche molto utile. Da lì nacque l’idea di Casotto, l’episodio, in tutti questi anni, più significativo che abbia mai vissuto, perché si crearono tante e tante cose in questo film… innanzitutto era un film non costoso per quella che era l’esigenza del film, una storia tutta raccontata all’interno di uno spogliatoio (e per questo io fui preso per pazzo, mi beccai insulti); poi nacque una partecipazione artistica talmente forte, nel cast, che sono quelle cose che capitano una volta nella vita. Tipo l’arrivo a Roma di Jodie Foster, già premio Oscar, preso per Taxi driver.

Così Mauro Berardi su Casotto:
Mi ha dato queste tre o quattro cartelle che erano il soggetto di Casotto, e io ci ho immediatamente creduto e mi sono dato da fare, montando l’operazione. Io riuscii, attraverso quello che Sergio in quel momento rappresentava per tutto il cinema, a coinvolgere tutti gli attori in partecipazione. Quindi il film costò poco. Coi nomi degli attori, ho portato il pacchetto a un distributore, come si fa di solito, e il distributore mi ha dato il minimo garantito, che io ho monetizzato, eccetera, secondo la trafila normale. Gli attori furono tutti squisiti, ricordo che la Jodie Foster era deliziosa, e avevamo un po’ paura, ci aspettavamo chissà che arie, e invece… Ci furono innumerevoli turni di doppiaggio, poi. Sul film si era radunata un po’ la troupe solita di Pier Paolo, c’erano Franco, Ninetto, Vincenzo Cerami… E c’era Tonino Delli Colli e tutta la troupe, c’era anche Graziella, la nipote di Pasolini, e c’era Umberto Angelucci, che era l’aiuto di Pier Paolo e poi ha fatto l’aiuto su Ricomincio da tre.

Sulla irripetibile composizione del cast ricorda Piccioli:
Citti neanche conosceva Jodie Foster. Quello che fece partire tutto fu Mastroianni. Marcello era un grande amico di Sergio e di Franco, stavano spesso insieme, due o tre volte a settimana si vedevano a Fiumicino, passavano le serate insieme, a bere, a divertirsi, a scherzare. Per cui Sergio stava costruendo l’idea del film e Marcello, il cui ruolo lo fece poi Tognazzi, disse subito, come diceva sempre lui: “Sì, sì, il film lo faccio io”. E la presenza di Mastroianni influenzò anche gli altri, la notizia cominciò a circolare, per cui cominciarono ad aderire molti attori (non so questo però quanto influenzò Jodie Foster). Poi, chissà perché, allora mi venne questa idea, ora non lo ricordo: anche perché nel film la nipote di Stoppa è una ragazzetta di borgata; visto il cast pensavo comunque che potevamo aprire gli orizzonti, quindi feci tradurre la sceneggiatura in inglese e la mandai a Los Angeles; c’era un agente qui a Roma che aveva preso un contatto di corrispondenza con gli Stati Uniti, che quindi in un certo senso rappresentava Jodie Foster per l’Italia. Era la signora Flavia Tonnai: le diedi la sceneggiatura e lei la mandò a Los Angeles con una lettera in cui si spiegava chi era Sergio Citti. In quindici giorni neanche Flavia mi chiamò per dire che la Foster stava prendendo l’aereo e il giorno dopo sarebbe arrivata a Roma con la madre, aveva letto la sceneggiatura ed era impazzita; noi poi non avevamo i soldi, c’erano difficoltà economiche per il film. Tutti gli attori parteciparono prendendo al di sotto di quello che era il loro abituale cachet professionale, ripeto un’esperienza irrepetibile: Jodie Foster, Mastroianni (che poi scappò via), Tognazzi, la Melato, Stoppa, Proietti, Placido, eccetera.
di Gaetano Gentile

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Ostia – 30.01.2009 ore 20.30
venerdì 23 Gennaio 2009, 23:58
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Italia 1970 103’
di: Sergio Citti
con: Franco Citti, Laurent Terzieff, Anita Sanders, Ninetto Davoli, Lamberto Maggiorani

Quello di Ostia è un caso. Ma si sa che anche i casi hanno le loro patenti, il loro codice: la possibilità di essere riconosciutie catalogati come casi. Ciò non avviene per il caso del regista Sergio Citti. Finora che un regista venisse direttamente a un mondo popolare non operaio, non era mai accaduto: quindi si tratta di un caso anche rispetto ai casi. E vero, si sono avuti dei sottoproletari-piccolo borghesi che hanno scritto libri o dipinto: ma per essi la catalogazione era pronta: erano dei «naif». Dichiarando «naif» un dilettante, dotato di talento, e proveniente da una cultura non borghese, tutto va a posto: compresa la coscienza (per sua natura razzista) dei professionisti borghesi. Invece no: Sergio Cittì non è un «natf». Qualche critico ha azzardato a dire che Ostia è un po’ un ex voto: ma l’ha detto a mezza voce, senza convinzione.

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C’è nel film l’oleografia di un Diavolo-pipistrello che porta sul suo groppone una ragazza bionda che sta lì a fare da spia e Sergio Cittì era ben cosciente di rappresentare almeno uno dei suoi personaggi (la Donna-demonio) come un personaggio da ex voto. E questo elemento «voluto», di carattere manieristico popolare, si inserisce, contaminandosi, con il realismo degli altri personaggi (i due fratelli e i loro amici). È questa contaminazione che è indefinibile. E fa sì che Ostia sia un’affabulazione nata da esperienze profonde e atroci dell’Autore (anche autobiografiche: come l’episodio della pecora Rosina), e da una sua volontà «demoniaca» di liberarsene attraverso l’ironia: che non potendo essere di qualità borghese non ottiene gli effetti che di solito l’ironia ottiene. Infatti le psicologie dei personaggi e il loro rapporto con l’ambiente sono tutte perfette, e prive di deformazioni. L’unica deformazione è quella metafisica del Maligno: che contamina dunque la forma del film, non il suo spirito. Ma, ancora una volta, i caratteri non sono quelli consueti della deformazione metafisica: perché Sergio Cittì non è un borghese spiritualista. Egli non crede in niente. La demonicità della donna è una sua ossessione privata che non ha doppifondi spiritualistici o religiosi: resta inerte e ontologica. Sergio Cittì, non è dunque un «naif» perché è del tutto cosciente della sua operazione formale: tuttavia porta da un mondo sottoproletario, imparlabile dalla cultura borghese, alcuni lacerti di sentimenti allo stato puro: e cioè getta sulla sua opera una luce sconosciuta di mistero non cercato: e dà nel tempo stesso all’opera una completezza e un’esaustività di quel certo reale che vuole esprimere – come ben raramente succede anche nei migliori film di autore.
Pier Paolo Pasolini, da Un film di Sergio Citti, «Ostia», Garzanti Milano 1970

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La notte brava – 16.01.2009 ore 20.30
domenica 11 Gennaio 2009, 18:11
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It.-Fr. 1959 95’
di: Mauro Bolognini
con: Jean-Claude Brialy, Laurent Terzieff, Rosanna Schiaffino, Franco Interlenghi, Tomas Milian, Elsa Martinelli

Liberamente tratto da Ragazzi di vita di Pasolini, autore qui della sceneggiatura, La notte brava di Bolognini mette in mostra le bellezze e la disperazione di una Roma notturna e silenziosa, abitata da errabondi spettri miseramente in cerca di una vita da “vivere”. Bramosia che, inevitabilmente, li farà sfiorare, li ingannerà per qualche ora – giusto il tempo di una notte – ma finirà per renderli, ancora una volta, tremendamente soli. Uno spaccato dolente e insieme raffinato, splendidamente fotografato dalle luci di Armando Nannuzzi e adagiato sulle musiche di Piero Piccioni. Considerato da più parti il lavoro migliore del regista pistoiese.
…Ed ecco appare Sergio Citti, che già aveva aiutato Pasolini a scrivere la sceneggiatura, e che Bolognini vuole al suo fianco per tutto il film come assistente ai dialoghi e location manager; la produzione gli corrisponde 15000 lire come settimanale, Sergio colma dei buchi di sceneggiatura… Tornando a Citti, si può affermare che collabora su un set cinematografico per la prima volta, comparendo anche in una scena, riconoscibile tra gli avventori di un bar…
www.zabriskiepoint.net / Gaetano Gentile, www.frameonlin

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Cinemapiù – Sergio Citti
giovedì 08 Gennaio 2009, 23:12
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Da «Accattone» a «Vipera»: il cinema scellerato di Sergio Citti
di Gaetano Gentile

La prima cosa che viene in mente quando si sente nominare Citti, oltre alla ormai proverbiale confusione tra Sergio (regista) e Franco (attore), è Pasolini. Ciò ha un suo fondamento, ma non è tutto.
Certo è il fatto che Sergio Citti è stato praticamente coautore di Ragazzi di vita e Una vita violenta, i romanzi che fecero esplodere il caso letterario Pasolini alla fine degli anni ’50, che ha avuto una parte fondamentale nella scrittura e nella realizzazione di Accattone, un film ormai oggetto di studio in tutte le cineteche, e che ha collaborato in vari modi a quasi tutta la filmografia di Pasolini.
Insomma, in un excursus che va da Ragazzi di vita a Salò, il nome di Sergio Citti è legato a quello dell’intellettuale friulano, che seppe attingere a piene mani da quello che definiva, un po’ riduttivamente, il suo “vivente lessico romanesco”, e a cui lo legava una profonda amicizia. Così Pasolini diceva di Citti:

Pongo Sergio tra Sandro Penna e Moravia. A Sandro Penna egli assomiglia per la totale e quasi santa libertà, l’anarchia assolutamente priva di aggressività, così naturale da non opporsi in alcun modo allo stato di vita degli altri (tutti schiavi!) come alternativa: a Sergio non salterebbe mai in mente di pretendere di offrirsi come esempio o di fare l’apostolato (ch’è sempre terroristico) della sua anarchia. A Moravia egli assomiglia per la rapidità dell’intelligenza e il pessimismo.

Sarebbe interessante approfondire la simbiosi-interazione tra Pasolini e Citti, ossia tra due culture opposte (borghese e proletaria, “scritta” e “orale”, egemone e subalterna) ma convergenti, che si completano l’una con l’altra. E, invece di sbarazzarsi di Citti con l’appellativo “pasoliniano”, valutare quanto cittiano sia stato Pasolini.
A ribadire l’autonomia del Citti autore, ci sono una serie di film, ognuno straordinario per motivi diversi, non inscrivibili a nessun genere, se non a quello personalissimo frutto della sua visione della vita grottesca e disincantata. A partire dall’esordio di Ostia (1970), storia di un amore fraterno insidiato da una donna-demone che Lino Miccichè definisce uno dei migliori esordi postsessantotteschi, a Storie scellerate (1973), intreccio di amori, castrazioni e morte nella Roma papalina raccontato da due condannati a morte (secondo Marco Giusti “bellissimo, ma così violento e scatenato che è difficile non considerarlo un film maledetto”), a Casotto (1977), che vince la sfida di un film tragicomico senza storia, girato tutto in un ambiente – un casotto di una spiaggia appunto – un kammerspiel balneare che è ormai un film culto, nuovo a ogni visione, come Febbre da cavallo (Steno, 1976) o Morire gratis (S. Franchina, 1968), di quelli attorno ai quali si organizzano serate di amici, a Duepezzidipane (1979), nostalgia dei tempi andati in un confronto amarissimo tra anni Cinquanta e Settanta, attraverso la vicenda di un figlio con due padri, risolta con un personalissimo uso della musica diegetica, a Il minestrone (1981), un viaggio collettivo dietro un’atavica fame, ai tredici telefilm della serie Sogni e bisogni (1983), orchestrati da Destino, Padreterno e Demonio, di cui cito almeno lo straniante-stralunato-struggente Verdeluna, a Mortacci (1989), sulla vita ambientata in un allegro cimitero, a I magi randagi (1997), toccante realizzazione del Porno-Teo-kolossal scritto anni prima con Pasolini, a Cartoni Animati (1998), triste apologo sui poveri impoveriti dal possesso, fino a Vipera, uscito solo a Roma, in un circuito alternativo.

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