Adele H., una storia d’amore – 20.02.04
venerdì 20 Febbraio 2004, 19:35
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L’histoire d’Adèle H.

di François Truffaut
con Isabelle Adjani, Bruce Robinson, Sylvia Marriott
Francia 1975 100’

Adèle, figlia di Victor Hugo, s’innamora non ricambiata di Pinson, tenente britannico per il quale abbandona la famiglia. Lo segue sino a Barbados, finisce in miseria in preda alla follia. Tratto dai diari della figlia di Victor Hugo (scoperti nel 1955), è il caso raro di un film intimista con un personaggio solo. E l’Adjani, superpremiata, è una straordinaria solista. Sarà amato da chi sa apprezzare in Truffaut la descrizione dolce di emozioni violente. A chi lo trovasse troppo freddo e distaccato, troppo intransigente nel suo tranquillo rigore, si può osservare che non è necessario essere romantici per raccontare una storia romantica. Talvolta, anzi, non si deve esserlo.

Il Morandini 2004



Shine – 06.02.04
venerdì 06 Febbraio 2004, 19:33
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di Scott Hicks
con Geoffrey Rush, Noah Taylor, Armin Müller-Stahl, Lynn Redgrave, John Gielgud, Stephen Sheehan
Australia 1996 110′

Le vie della follia sono quasi infinite, passano anche per il terzo concerto di Rachmaninov che, nel film, è l’ultima, micidiale esibizione del giovane pianista David Helfgott (realmente esistente e realmente geniale) prima di essere risucchiato nella follia. Naturalmente è lecito chiedersi se una forma d’arte a così diretta partecipazione abbia già a che fare con la schizofrenia: ma il film dell’australiano Scott Hicks, scoperto al Sundance Festival e alla Mostra di Venezia, chiarisce e divide cause ed effetti. Perché tutto nasce dalle tragedie edipiche del concertista con un dispotico padre yiddish, reduce dai lager, deciso a tenere il figlio accanto a lui e senza altri maestri. Il mini exodus di David a Londra sarà durissimo: la sua psiche si offusca, viene curato, è ridotto a una larva che si esibisce per osterie. Ma una donna (Lynn Redgrave) gli farà da moglie e da madre, lo riporterà al concertismo, cercherà di curare la ferita di famiglia fino alla strepitosa riscossa. Preparate i fazzoletti ma non per spargervi lacrime comuni: «Shine» è un film non banalmente commovente. Ha un incipit di tragedia intima e poi un grande momento musicale, di quelli che lasciano libera la fantasia di vagare nei misteri delle note e della psiche. (…)

Corriere della Sera, Maurizio Porro

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Dolls – 23.01.04
venerdì 23 Gennaio 2004, 19:32
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di Takeshi Kitano
con Miko Kanno, Hidetoshi Nishijima, Tatsuya Mihashi, Chieko Matsubara, Kyoko Fukada
Giappone 2002 113′

Se Takeshi Kitano non fosse uno dei più grandi registi del cinema contemporaneo, Dolls sarebbe acclamato come un capolavoro. Essendo Takeshi Kitano uno dei più grandi registi viventi, Dolls é considerato solo un buon film d’autore certo importante, ma pesante e noioso. Schizofrenia del cinema e del suo destino. Come scrivevamo da Venezia, dove il film è stato presentato rastrellando i frutti di una frigida accoglienza, rea di aver tacciato di estetismo l’ultima fatica del maestro giapponese, con Dolls Kitano scrive la sua teogonia, dà vita compiuta e quadratura teorica a un mondo, quello che ha descritto in tanti e tanti film, da Hana-bi a Sonatine, da li silenzio sul mare a Brothers, che solo ora si riesce a cogliere nella sua vera essenza e completezza. Che Dolls sia una creazione lo si capisce immediatamente dall’esordio, ouverture poetica e filosofica del film. Le immagini si accendono su di una rappresentazione di marionette Bunraku che “mettono in scena”, esse stesse a loro volta messe in scena, I messi per l’inferno, opera del drammaturgo Monzaemon Chikamatsu. Ciascuna marionetta, alta più di un metro, é mossa da tre uomini che in perfetta coordinazione danno vita a questi esseri altrimenti inanimati; una coreografia di corpi vivi che danza la vita di esseri incapaci di un’esistenza autonoma e diretta. Kitano esplicita la premessa filosofica su cui si impernia il film. I messi per l’inferno si trasformano in tre coppie di personaggi che parallelamente vivono il loro destino come una condanna senza appello. Due ragazzi con lo sguardo perso nel vuoto percorrono, legati da una corda rossa, i viali di un viaggio che solo loro conoscono. Li chiamano i vagabondi legati. Erano amanti e promessi sposi, poi il mondo, sotto le spoglie della tradizione e del successo, li ha sottratti al loro destino, spogliati del loro amore e condannati alla pazzia. Ora espiano, si muovono come marionette, attraversando le stagioni come macchie di colore, il rosso autunno e il bianco inverno. Un altro amore impossibile aspetta da anni il suo fidanzato; ha la forma rigida di una donna ormai anziana che, fissa come un punto, aspetta da anni su di una panchina nel parco il ritorno del suo amato allora operaio ora yakuza affermato. Lo sguardo vuoto, gli occhi fermi non si volgono neanche il giorno in cui lui torna nostalgico nel parco in cerca della vita che non ha avuto e dall’amore che non amato. Il terzo é cieco. Un ragazzo si é cavato gli occhi dopo l’incidente che ha costretto la sua cantante del cuore aI ritiro dalle scene. Lei sfigurata non vuole farsi vedere ma ammette al suo cospetto solo il suo innamorato spasimante cieco. Uomini e donne come marionette. Kitano abdica all’ironia, sempre presente, benché sottile, nei suoi trascorsi, per una visione seria e apocalittica del mondo. Il genere umano è senza destino perché lo ha perso nella sua giovinezza. Non può più scegliere, bensì é scelto dal suo passato, dai suoi errori. La bellezza é l’unica salvezza e con essa l’arte come sua messa in scena. Kitano disegna le sue marionette eterodirette in un mondo che loro non sentono e non vedono più bello, accecate come sono dalla mediocrità di vite senza senso

l’Unità (1/11/2002) Dario Zonta

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A beautiful mind – 09.01.04
venerdì 09 Gennaio 2004, 19:30
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di Ron Howard
con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Ed Harris, Paul Bettany, Christopher Plummer
USA 2001 129’

«È un uomo molto riservato ed è un genio. La prima volta che l’ho incontrato, non sono riuscito a non pensare per tutto il tempo che era l’uomo che aveva scoperto qualcosa che era sotto gli occhi di tutti per centinaia di anni ma che solo lui è riuscito a vedere così chiaramente»: chi parla è Russell Crowe, l’attore che l’altr’anno ha vinto un Oscar per Il gladiatore. L’uomo di cui Crowe parla è John Nash, matematico Premio Nobel, la cui vita è raccontata da A Beautiful Mind. Dopo aver messo a punto, appena laureato, dei nuovi modelli matematici destinati a trovare innovative applicazioni in molteplici campi (dall’economia alle teorie quantistiche), l’uomo matura in meno di un decennio i segni sconvolgenti di una profonda schizofrenia destinata a cambiare radicalmente i connotati della sua vita. Il film di Ron Howard racconta questa inesorabile discesa nella follia con un intreccio da thriller che il regista ha pregato tutti i giornalisti del mondo di non svelare. Ma che fornisce al tradizionale biopic hollywoodiano un’armatura singolare. (…) Che cos’é, in fondo, il genio? È intravedere forme e significati in un contesto avverso, caotico, minaccioso. Ma il disordine con il quale ha a che fare John Nash, non é solo quello provocato dal controspionaggio sovietico. La malattia lo porterà inesorabilmente a perdere il suo ruolo accademico e a mettere a repentaglio la famiglia. Solo una lunga e drammatica colluttazione con le creazioni della sua mente, lo porterà in tarda età a ritrovare un equilibrio. Da questo punto di vista Howard, che da Fuoco assassino ad Apollo 13 ha dimostrato di saper miscelare melò e azione come una volta riuscivano a fare i registi americani degli anni quaranta, costruisce nel tradizionale melodramma hollywoodiano delle tensioni angosciose, quasi estranianti, in cui la potenza dell’intelligenza diventa la fonte di un’allucinazione costante, di uno sguardo perennemente diviso tra purezza e persecuzione, amore e terrore. Gli ambienti di Princeton, nella cristallina fotografia di Roger Deakins, il direttore della fotografia al quale si devono molte straordinarie immagini dei film dei fratelli Coen, possiedono l’aura claustrale di un età fantastica, un medioevo irreale che cozza contro la nevrosi dell’America della guerra fredda, nella quale precipita a spirale la psicosi del protagonista. (…) Russel Crowe è uno spettatore attonito dei guasti del proprio genio e della vulnerabilità della propria identità, Jennifer Connelly, l’attrice che esordì con Leone in C’era una volta in America, restituisce anche con maggior incanto l’idea del sacrificio che una persona amata può imporre alla nostra vita. Invece di essere il simbolo di un’ambizione meravigliosamente realizzata grazie a determinazione e energia individuale (l’ideologia più diffusa in tutto il cinema americano) lasciano allo spettatore del film la sensazione di una infinita rassegnazione. Paura, amore illimitato, senso inaudito di sconfitta: per essere un film da Oscar, A Beautiful Mind lascia troppe volte lo spettatore sull’orlo di sentimenti aspri e abrasivi. Resi ancor più laceranti dal fatto che a dovervi fare i conti sia proprio un matematico di genio, costretto a fare la spola tra il mondo perfetto delle idee matematiche e quello ambiguo, misterioso e assurdo della propria vita.

Duel, Mario Sesti (1/2/2002)

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Cinemapiù 21
giovedì 01 Gennaio 2004, 09:07
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L’inafferrabile follia

  • 09.01.04 – A beautiful mind
  • 23.01.04 – Dolls
  • 06.02.04 – Shine
  • 20.02.04 – Adele H., una storia d’amore
  • 05.03.04 – Elling
  • 19.03.04 – Spider

     

    Amori proletari

  • 02.04.04 – Marius e Jeannette
  • 16.04.04 – Posta celere
  • 30.04.04 – Nuvole in viaggio
  • 14.05.04 – Dolce è la vita
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