SERATA IN RICORDO DI CLAUDIO PUNTIN
martedì 27 Maggio 2025, 11:51
Filed under: Arci

Domenica 1 giugno 2025 ore 20.00
presso il centro civico Primo Levi
a San Canzian d’Isonzo

Letture dalla fiaba politica
La fattoria degli animali rossi
accompagnamento musicale e momento comunitario a seguire

organizzato da
ARCI Eugenio Curiel
ANPI San Canzian d’Isonzo
Carico Sospeso
Kulturhaus Goerz
Euroafricando

per info 3381672910

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Burattini senza confini 2025
martedì 27 Maggio 2025, 11:49
Filed under: Arci,Teatro

Sabato 31 maggio 2025 ore 18.00
presso la Biblioteca Comunale a Pieris

IL MULINO INCANTATO

Atto unico per burattini scritto da Peter Ivan Chelu e riadattato da Alberto De Bastiani
Burattini di James Davies
Scenografia di Margherita Oliva
Con Alberto De Bastiani e Irene Costantini

Il protagonista, Gimmi burattino, deve macinare tre sacchi di grano al mulino, ma per farlo è costretto a scontrarsi contro il cattivo mago Astarotus Occhistorti, che proprio del mulino s’impadronì. Il mago ha dei servi potentissimi: dei fantasmi, un diavolo e un orco affamato; ma non solo, grazie al suo mantello magico, può trasformarsi in qualsiasi cosa o essere vivente. Fortunatamente tutti questi trucchi di magia non gli saranno utili: Gimmi burattino, con l’astuzia e con i suggerimenti dei bambini, porterà ad un lieto fine anche questa storia.

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Tonino De Bernardi “Il cinema senza frontiere”
lunedì 19 Maggio 2025, 12:08
Filed under: Cinemapiù 47,Video

SERATA FINALE DEI FESTEGGIAMENTI PER I TRENTA ANNI DI CINEMAPIU’

VENERDI’ 23 MAGGIO 2025 ORE 20.45
presso la sala maggiore del centro civico Primo Levi
di via Trieste 12 a San Canzian d’Isonzo
Ingresso libero

a Giorgio, Franco e Marlena che rimangono nei nostri cuori

“Per il vostro trentennale vi mando qualcosa di speciale di mio cinema. FREGIO, 8mm. 1968 fa parte della mostra che mi ha fatto il Museo del cinema di Torino. Sto lavorando a portare la mia mostra altrove. Sarà di sicuro oltre Paris e New York, Sao Paulo del Brasile, e poi Santiago del Cile e Buenos Aires, e Londra ICA… E India. E filmo sempre, camera a mano, sto finendo di montare nuovo film con Albe sulla mia malattia, sono entusiasta, W il cinema e la vita! e ricordo sempre Marlena, io compirò 88 anni il 24 maggio… Tonino”

FREGIO OVVERO AN ANGEL CAME TO ME
di Tonino De Bernardi
Italia   1968   24′

“Ecco il mio 8mm 1968 (muto), 24’, Fregio ovvero An Angel Came to me (di William Blake poeta). Ho iniziato il mio cinema con l’8mm. perché era il mezzo più economico e con l’8 potevo fare le sovrastampe. L’8mm. è muto (allora, 1968, facevo la colonna sonora nella sala con 33 giri e bande magnetiche). Quindi per me il cinema era soprattutto VISIONE (proiettavo anche su 3 o 4 schemi) e rivolta per cambiare l’usanza, il modo di vivere! Per il suono ero diviso tra la musica (classica e pop) e la parola scritta di me e nei libri, la parola dei poeti. Allen Ginsberg è venuto a Torino e siamo diventati amici (diceva che Il Mostro Verde, di me e del mio amico Paolo Menzio, era il film più bello dell’underground europeo). Amavo Rimbaud. Ero hippy. Mi piaceva Pier Paolo Pasolini. La mia grande amica era Patrizia Vicinelli (andavamo a casa sua in esilio in Marocco). Per questo Fregio mi ero ispirato a Blake, An Angel Came to me… Il titolo Fregio, il fregio di un tempio. Viene dall’amore che avevo per i miei alunni della scuola secondaria di Casalborgone. Mi piaceva fare una scuola al di fuori della scuola normale…”

THE ANGEL
William Blake

I Dreamt a Dream! what can it mean?
And that I was a maiden Queen,
Guarded by an Angel mild:
Witless woe was ne’er beguil’d!


And I wept both night and day,
And he wip’d my tears away,
And I wept both night and day,
And hid from him my heart’s delight.


So he took his wings and fled;
Then the morn blush’d rosy red;
I dried my tears, & arm’d my fears

With ten thousand shields and spears.

Soon my Angel came again:
I was arm’d, he came in vain;

For the time of youth was fled,
And grey hairs were on my head.

L’ANGELO
William Blake

Un Sogno sognai! Che cosa significa?
E ch’ero una Regina pura,
Protetta da un Angelo mansueto:

Affanno frivolo mai fu distratto!

E io piangevo notte e giorno,
E lui scacciava il mio pianto,
E io piangevo notte e giorno,
E gli nascondevo la gioia nel mio cuor.


Così prese il volo e sparì;
Poi il mattino roseo fiorì:
Le lacrime asciugai e le paure armai

Con dieci mila lance e clipei.

Presto l’Angelo ritornò da me:
Ma ero armata, invano riapparve;

Ché la mia gioventù era passata,
E la mia testa oramai era imbiancata.

Live Soundtrack
Sonorizzazione dal vivo

Marilisa Trevisan 
Letture ed interventi poetici

Tonino De Bernardi

(Chivasso, Torino, 1937), regista underground dal 1967 al 1983, nel 1987 gira il suo primo lungo «ufficiale», Elettra da Sofocle, prodotto da Rai3 e interpretato da attori non professionisti di Casalborgone, dove insegna alle scuole medie fino al 1992. Con Viaggio a Sodoma (1988) vince ex aequo con Godard il World Wide Video Festival di Den Hag, in Olanda. Partecipa in concorso alla Mostra di Venezia con Appassionate (1999) e a Orizzonti con Médée miracle (2007), interpretato da Isabelle Huppert. Filmmaker irrequieto e debordante, fa almeno un film all’anno. Nel 2018 è stato protagonista con la moglie Mariella del film di Teresa Villaverde O termómetro de Galileu, presentato al Torino Film Festival in Onde, come del resto molti altri suoi lavori.

a seguire

O TERMÓMETRO DE GALILEU 
di Teresa Villaverde
Portogallo   2018   105’

Ricordi di una casa di campagna
Presentato nella sezione Signatures dell’International Film Festival Rotterdam, O Termómetro de Galileu è il racconto di un’estate trascorsa da Teresa Villaverde, ospite della casa di campagna piemontese dell’amico Tonino De Bernardi. Si siede nella tavolata all’aperto con tutta la famiglia, nel sedile di dietro nella macchina nel viaggio di ritorno a casa, o ascolta le storie della signora da cui il regista è solito comprare uova e formaggio.


Il termometro di Galileo è un particolare termometro, alternativo, elaborato dallo scienziato pisano e dai suoi allievi, che funziona con una serie di ampolline contenenti liquidi di diversi colori, che fluttuano e si dispongono in un certo modo, permettendo di desumere la temperatura, all’interno di un cilindro contenente alcol. Uno di questi marchingegni decora la casa di campagna vicino a Chivasso dove trascorrono le loro giornate il regista under- ground Tonino De Bernardi, la moglie Mariella, e la loro famiglia. La collega e amica portoghese Teresa Villaverde si immerge in quella vita tranquilla e selvatica, fuori dal mondo, condivide con loro le lunghe giornate di un’estate. Il termometro di Galileo non rimane nel film se non come titolo. Ma il termometro di Galileo assurge a metafora di una vita underground come quella di Tonino: si può fare cinema, un cinema sotterraneo, alternativo, senza i mezzi di Hollywood o Cinecittà così come si può misurare la temperatura senza usare il mercurio. E il termometro di Galileo appartiene anche a quegli oggetti che decoravano le case di una volta, come l’uccello che beve, il pendolo di Newton, il sollevatore di pesi in equilibrio, il cui senso estetico si basa sullo stupore di un principio fisico. Così è la vita di Tonino e Mariella, semplice, basata sui ritmi della natura e della campagna, la gestione del casolare, le feste e le tavolate all’aperto con tanti ospiti, la potatura delle piante, capaci di commuoversi di fronte a un vitellino, e gravida di una cultura spontanea estranea alle accademie o alle istituzioni ufficiali. Di chi ha accolto nel proprio casolare il Living Theatre, di chi ha costretto la Rai ha strutturare il piano di lavorazione di Elettra in base agli orari di lavoro di regista e attori, tutte persone del posto, di chi accoglie a casa propria anche una persona di etnia hazara che rievoca i Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani, di chi conosce il poeta latino Terenzio ben oltre le competenze richieste a un’insegnante.
La casa di Tonino e Mariella è ricolma di quegli oggetti di una volta, che portano ricordi o racchiudono immagini. Come quegli album fotografici dalle pagine inframezzate con carta velina, da cui escono le scene di una vita, i personaggi famigliari, quelli che non ci sono più. Sono persone d’altri tempi gli stessi Mariella e Tonino, come si capisce da quell’impostazione dolce della voce di lei, da insegnante d’altri tempi, che sfodera mentre dà ripetizione di latino al nipote o mentre legge la poesia all’amica scomparsa. D’altri tempi la stessa televisione dal formato a tubo catodico che all’inizio, immagine sospesa, squarcia il nero prima con quella nebbiolina da mancanza di segnale e poi con il film televisivo di Tonino, Elettra.
Con una struttura circolare Teresa Villaverde chiude ancora con un richiamo meta-cinematografico. Stavolta si avverte la presenza della telecamera che Tonino vorrebbe spegnere per tornare a situazioni di intimità, peraltro nell’unica scena in cui si vede la regista nell’inquadratura. Sia la prima che l’ultima scena sono accomunate dalla buffa goffaggine di Tonino, che non riesce né ad accendere né a spegnere il dispositivo. Da un lato c’è l’esigenza di filmare, che si vede anche quando Tonino riprende la lettura della poesia, ma anche dall’altra la consapevolezza di essere filmati e la necessità di un termine, o di una pausa, alle riprese e alla loro pervasività. Quello stesso pudore che Teresa Villaverde aveva mostrato in uno stacco dell’intervista ai nipoti, mentre il più piccolo aveva un momento di imbarazzo, salvo poi dimostrare un’enorme spontaneità.
“L’arte è il bisogno primario di creare qualcosa che nel mondo non c’è ancora” dice Tonino. L’arte di Teresa Villaverde in O Termómetro de Galileu è quella di saper cogliere le cose e saperle ordinare, seguendo una poetica, con il montaggio. Con momenti sublimi, come quando Mariella si addormenta mentre Tonino racconta del nonno morto suicida. O come quel momento straordinario, e del tutto casuale, in cui prima della lettura della poesia Lettera a Pasolini, suonano improvvisamente le campane. Tanti rintocchi, non sono quelli che normalmente scandiscono la giornata. “Sarà un funerale?” si domanda Mariella.
L’arte di Tonino De Bernardis, e quella di Teresa Villaverde, è piena di quell’humanitas che Mariella e nipote trovano in Terenzio durante la lezione di ripetizione. Poeta che rispetto a Plauto era andato incontro anche a insuccessi, perché trattava temi più complicati, che potevano disorientare il pubblico.
Giampiero Raganelli

Teresa Villaverde

Teresa Villaverde Cabral è la prima direttrice della compagnia teatrale della Scuola di Belle Arti di Lisbona. È poi redattrice e regista di film. Nel 1986, Teresa Villaverde ha interpretato il suo primo ruolo in À fleur de Mer di João César Monteiro. Nel 1990, ha riscritto la sceneggiatura con Olivier Assayas, Manuel Mozos e João Canijo per il film Filha da Mãe. Nel 1991, ha scritto la sceneggiatura e diretto A Idade Maior, film con l’attrice Maria de Medeiros. Nel 1994, ha diretto nuovamente Maria de Medeiros nel film Três Irmãos, che ha vinto il premio per la migliore attrice nel 1994 al Festival del cinema di Venezia e al Festival del cinema di Cancún in Messico. Nel 1998 ha diretto Os Mutantes, film selezionato al Festival di Cannes nella categoria Un Certain regard. Nel 2004, ha realizzato il film biografico Un favore da Claridade su Pedro Cabrita Reis. Nel 2006, il suo film Transeviene presentato al Festival di Cannes nella Quinzaine des réalisateurs. Nel 2014, riunisce tredici registi tra cui Isild Le Besco e Jean-Luc Godard per il film I ponti di Sarajevo.

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PICCOLI ARTISTI
martedì 13 Maggio 2025, 11:05
Filed under: Arci,Laboratori

Premio Terzani

Brava Antonella!!!

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SOLARIS
martedì 13 Maggio 2025, 10:34
Filed under: Cinemapiù 47

Soljaris
di Andrei Tarkovsky
con Natalya Bondarchuk, Donatas Banionis, Yuri Charvet, Jüri Järvet, Vladislav Dvorzhetskiy
URSS   1971   165′

In principio era Panthalassa. Tutto è acqua, e questo enorme oceano è materia e mente. Questo oceano composto da una strana sostanza gelatinosa, torbida e collosa, è Solaris.
Furono forse queste le prime riflessioni che mossero lo scrittore polacco Stanslaw Lem a scrivere nel 1961 Solaris, dal quale il regista russo Andrej Tarkovskij trasse l’omonimo lungometraggio del 1972 (un altro, di produzione americana e con la regia di Steven Soderbergh, verrà tratto dal romanzo nel 2002, ma modificandone e impoverendone la trama).

Il film di Tarkovskij, che vinse il Gran Prix Speciale della Giuria al 25° Festival di Cannes, fu portato in Italia nel 1974, privo dell’abbondante prima sezione, antecedente la partenza del protagonista e con dialoghi snaturati rispetto all’originale. Tali scelte avevano l’obiettivo di “snellire” la pellicola per il pubblico italiano. Al di là di queste spiacevoli vicende, i cinefili italiani possono ad oggi fruire dell’edizione integrale con audio in russo sottotitolato.

In un imprecisato futuro, coerente con la corsa allo spazio perseguita da Stati Uniti e URSS negli anni Sessanta e Settanta, gli scienziati russi scoprono un pianeta al di là del sistema solare: esso appare come un enorme oceano, e viene battezzato Solaris. Nasce così la solaristica, ovvero quel ramo della scienza astronomica e astrofisica che si occupa di studiare il nuovo corpo celeste.
All’avvio della vicenda la solaristica è già una scienza in declino, poiché non è stata in grado di assolvere al proprio compito. Kris Kelvin, il protagonista, è l’uomo a cui l’umanità si affida per decretare la sorte della stazione spaziale in orbita intorno Solaris; egli è inviato in orbita per accertare l’avanzamento delle ricerche e per decidere se queste siano o meno un buco nell’acqua.

Il lungo antefatto che ne precede la partenza – inserito da Tarkosvkij e non presente nel romanzo – ha il compito non solo di presentare le intenzioni di Kelvin (porre fine agli studi della stazione spaziale), ma anche di mostrarci gli eventi che molti anni prima avevano coinvolto altri scienziati e militari sul pianeta misterioso. La registrazione della testimonianza presentata da Berton, amico del padre di Kelvin che aveva partecipato a una missione di salvataggio su Solaris, funge da flashback: l’uomo, interrogato da una commissione, racconta di strani avvenimenti e visioni, di figure e corpi che ha visto emergere dal mare denso e ribollente. Quasi nessuno sembra aver fiducia nel suo rapporto, che viene etichettato come allucinatorio.
Queste le stranianti premesse al viaggio spaziale di Kelvin. Ma Solaris non è un thriller fantascientifico: Tarkovskij sfrutta la trama per elaborare questioni non solo gnoseologiche, ma anche psicologiche ed esistenziali.

«È l’uomo a rendere immorale la scienza» 

La stazione spaziale è, innanzitutto, il luogo in cui gran parte della vicenda si svolge: essa rappresenta il limite (inteso come limes, confine tra il conoscibile e l’inconoscibile) della conoscenza umana, di cui è baluardo inefficace, così sospesa sopra quella materia sconosciuta e misteriosa; essa può essere interpretata anche come il limite dell’umanità stessa, luogo immaginario in cui gli uomini sono costretti a confrontarsi con se stessi, con il loro passato e con ciò che umano sembra non essere.
Centrale, in Solaris, è dunque il tema della conoscenza e, di conseguenza, dello strumento che l’uomo utilizza per conoscere: la scienza, con il metodo che ne consegue. E proprio l’approccio scientifico, con i suoi presupposti materialistici, meccanicistici e razionalistici, è presentato come insufficiente agli scopi della solaristica. Risulta impossibile comprendere con gli strumenti a disposizione il funzionamento di Solaris; le strumentazioni di cui dispongono gli scienziati sono utili soltanto alla distruzione (si pensi al nichilizzatore messo a punto da Sartorius), e la possibilità di una scienza che sia etica e non soltanto un’irrefrenabile sete di conoscenza è questione che emerge sin dal confronto tra Berton ed il protagonista. L’atteggiamento di una scienza meramente assetata di conoscenza, incapace di equilibrare i mezzi con il fine, è esplicitato nel personaggio di Sartorius, che incarna l’atteggiamento eccessivo proprio dell’uomo assetato di Verità, a tal punto da essere disposto a distruggere ciò che non è in grado di comprendere.

Da un lato si pone dunque il metodo di una scienza priva di morale, incarnato appunto da Sartorius, il cui fine (e idolo) è «la verità scientifica, la sola», per giungere alla quale ogni mezzo diviene lecito, anche la distruzione stessa dell’oggetto di studio. L’incomprensibile mostra la limitatezza dell’uomo e delle sue capacità, e l’essere umano, che secondo Sartorius «è stato creato dalla natura per conoscerla» (implicando lo studio approfondito della natura quale missione propria dell’umanità), deve essere disposto ad ogni mezzo per tale missione. È inoltre interessante notare come sia la questione dell’immortalità ad attrarre Sartorius: l’immortalità degli ospiti in grado di rigenerarsi. Impossibilitato per natura a possedere quel potere, incapace di comprenderne la radice, desidera eliminare il problema stesso creando il nichilizzatore. In tal senso la stazione orbitante si presenta anche come un mondo alla rovescia, dove gli uomini non riescono ad abituarsi all’immortalità degli ospiti e non vi aspirano, ma la rifuggono poiché stravolge completamente la loro conoscenza del mondo e di se stessi.
Dall’altro lato vi è, invece, una scienza mossa dalla morale, da uno scopo connotato da umanità in senso emotivo, che tenga conto del dolore che i metodi della ragione, per seguire la verità, procurano. Kelvin non è infatti disposto a sezionare l’immagine della moglie, sebbene consapevole della sua immortalità, poiché non accetta che durante l’operazione possa provare dolore.

Il tema del dolore, inoltre, ritorna in una delle scene principali, come connotazione propria di ciò che è umano. Se Kelvin si lascia trasportare dalle emozioni – come inizialmente aveva sostenuto di non poter fare («non posso lasciarmi condurre dai sentimenti. Non sono un poeta. Ho uno scopo») – e trascura la sua missione di scienziato, Snaut incarna forse la via di mezzo tra i due: desideroso di conoscere, di avere un contatto con Solaris, e disposto a trascorrere la vita intera sulla stazione orbitante, non è tuttavia pronto a soluzioni estreme, facendosi dunque portatore dell’idea che permetterà una sorta di collegamento con il pianeta. Snaut, inoltre, consapevole della deriva meccanicistica, impersonale e formale della scienza contemporanea, non si trattiene dall’esprimere rimpianto per l’abbandono da parte dell’uomo della visione mitologica del cosmo: «abbiamo perso il senso del cosmico. Per gli antichi era più accessibile, lo accettavano come mito e lo vivevano come tale». La citazione che egli fa del mito di Sisifo non è casuale: è forse la scienza, come l’intero agire umano, una costante, faticosa ripetizione senza possibilità di successo?

«Perché andiamo a frugare l’universo quando non sappiamo niente di noi stessi?»

Il tema della conoscenza non viene declinato solamente verso l’esterno, bensì anche verso l’interiorità: il busto di Socrate, presente in molteplici inquadrature delle scene in biblioteca, non può che rimandarci al celebre motto gnoqi sauton, conosci te stesso, che è l’altro motivo centrale della pellicola. Il tema della conoscenza di sé è elaborato principalmente nei due personaggi principali, Kris Kelvin e la moglie Hari. Kelvin deve conoscere se stesso attraverso una riappacificazione con il passato e con sentimenti che aveva escluso in quanto incomprensibili, ma che ora, ripresentandoglisi, gli concedono una seconda opportunità. La domanda che Hari gli pone («ti conosci?») e la sua risposta («come ogni essere umano») risulta ironicamente drammatica alla luce delle conclusioni cui il film stesso ci conduce: l’individuo può davvero conoscersi? Kelvin giunge a un’elaborazione dell’amore che prova verso la moglie, sebbene rispetto a lei il suo atteggiamento appaia più votato a un’egoistica occasione per rimediare agli eventi passati, finiti in tragedia.
Hari, invece, in quanto simulacro è priva di identità: deve conoscersi poiché non si ricorda (nel senso propriamente riflessivo del verbo, ricordarsi). Davanti a una foto che la raffigura non è in grado di riconoscersi, poiché non ha un’identità. L’identità che va cercando non le è disponibile in quanto mancante delle esperienze che comportano la formazione di un individuo. È, emblematicamente, davanti allo specchio che Hari è lentamente in grado di ricollezionare frammenti di un passato che è sì suo, ma non le appartiene. Presa coscienza del suo status di copia, percorre due vie parallele: da un lato si dispera (sa che l’amore tributatole da Kelvin non è rivolto a lei, bensì alla donna di cui è simulacro); dall’altro intraprende un percorso di umanizzazione che la porta a diventare se stessa (come Kelvin le testimonia quando ammette «le somigliavi, ma ora sei tu la vera Hari»). In qualche modo diventa se stessa vivendo e soffrendo. La sua umanità e il suo amore per Kelvin, tuttavia, finiscono per esprimersi in un’eterna ripetizione del tragico: come la donna dal cui ricordo è venuta al mondo, la nuova Hari decide di suicidarsi, consegnandosi all’annichilitore di Sartorius; non più, però, per dolore, bensì questa volta per amore. Non è chiaro se questo implichi una sorta di necessità che guida la vita di ogni individuo (nel caso di Hari la necessità, per tutte le volte che vivrà, di giungere al suicidio), o se questo atto non fosse nel secondo caso dato dalla sola consapevolezza di non essere realmente umana e di non poter tornare sulla Terra con Kelvin.
Il personaggio di Hari, oltre a essere la prova tangibile del potere di Solaris, è anche quello che più si dimostra umano, in grado di comprendere se stesso e gli uomini, e di soffrire. È il tema dell’inumano che si umanizza tramite l’amore ed il dolore, e che si contrappone alla figura di Sartorius, uomo disumanizzato incapace di vedere in Hari alcunché di umano, poiché non terreste, poiché materialmente differente. È tuttavia proprio l’inumano a far da specchio all’uomo: «proprio perché siete umani vi comportate così. Perché siete uomini litigate». Quello specchio citato da Snaut, vero portatore del messaggio tarkovskijano: l’uomo desidera la conoscenza assoluta, ma per ottenerla deve portare tutto a un livello umano, ridurre tutto, il macroscopico – il cosmo – e il microscopico – il Sé – alle proprie possibilità di conoscenza: «Noi non vogliamo affatto conquistare il Cosmo. Noi vogliamo allargare la Terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di uno specchio. […] L’uomo ha bisogno solo dell’uomo».

Culmine teoretico del film è senza dubbio l’incontro dei personaggi nella biblioteca. Sotto gli occhi degli elementi che tradizionalmente caratterizzano la conoscenza umana (libri, sculture, strumenti musicali, dipinti e maschere, tutti simboli delle diverse declinazioni e delle diverse forme in cui la conoscenza umana si è espressa) i protagonisti dibattono sulle loro posizioni. Quale sia il ruolo della scienza; che cosa sia più proprio dell’uomo, se la sete incondizionata di conoscenza – presentata da Sartorius – o l’accettazione, seppur piena di dubbi, del mistero dell’inconoscibile che ci muove però all’amore – incarnato da Kelvin. Le domande che sorgono sono molteplici: la conoscenza umana è davvero sconfinata? Esiste l’inconoscibile?
Sono forse le parole di Kelvin nel finale a illuminarci sulla prospettiva che Tarkovskij vuole assumere: «per conservare le semplici verità umane ci vogliono i misteri. Il mistero della felicità, della morte, dell’amore».
È allora l’accettazione dell’inconoscibile in quanto tale, di ciò che c’è ma cui non sappiamo dare una causa e una descrizione analitica, qualcosa che non va eliminato, bensì mantenuto, e che faccia in qualche modo da garante proprio per le verità scientifiche a cui tanto aneliamo.

Un oceano di neutrini

Il vero protagonista nascosto dell’intero lungometraggio resta indubbiamente il pianeta, Solaris. L’incapacità della scienza di comprenderne i segreti non ci impedisce di definire Solaris come una vera e propria res cogitans, una sostanza cosciente in grado di interagire e rispondere con la coscienza umana che cerca di lambirne l’essenza. Solaris reagisce agli stimoli cui è sottoposto dando vita a elementi nascosti nelle coscienze degli abitanti della stazione spaziale. È in grado di concedere la propria materia, i neutrini, e il proprio campo magnetico per la stabilità delle figure che popolano i ricordi e le menti degli uomini. Il viaggio verso la stazione e le vicende che vi prendono luogo ricalcano abilmente il mito, quel mito che da Odisseo a Edipo descrive l’uomo come un insaziabile cercatore di risposte, tanto sul mondo quanto su se stesso. La solaristica incarna questo desiderio di comprendere l’incomprensibile che sta dentro e fuori di sé.

Nel finale, indubbiamente ad effetto, ritorna anche un altro topos del mito: il nostos, il ritorno del protagonista a casa dopo aver viaggiato nel cosmo e in se stesso, con tanto di cane che lo riconosce, similmente a quanto Argo aveva fatto con Ulisse. Ma la possibilità di Kelvin di riabbracciare il padre è in verità preclusa (ancora prima che Kelvin partisse per Solaris si intuisce da un dialogo con il padre che il protagonista non tornerà prima della morte del genitore): è dunque l’ennesima creazione di Solaris che ci viene mostrata. La soluzione trovata dal professor Snaut per entrare in contatto con il pianeta è stata quella di inviargli l’encefalogramma di Kelvin. In tal modo, sembra che l’oceano pensante abbia potuto conoscere approfonditamente la coscienza di Kelvin e dar vita a isole dove i pensieri e i desideri del protagonista prendono forma: possiamo immaginare che Kelvin provi nostalgia della Terra e desideri incontrare di nuovo il padre; è dunque Solaris a soddisfare questo desiderio. Appare un’isola sperduta in questo oceano misterioso in cui la materializzazione del desiderio di Kelvin si fa realtà, dove una piccola dacia prende forma nel cosmo per realizzare un desiderio irrealizzabile.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire. Il film di Tarkovskij è indubbiamente una pietra miliare del cinema che non smette di far sorgere interpretazioni, incapaci di rispondere pienamente a tutte le domande che suscita. Ma proprio per questo merita di essere visto e rivisto.
Federico Fornasino

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INTO THE WILD – NELLE TERRE SELVAGGE
lunedì 05 Maggio 2025, 11:15
Filed under: Cinemapiù 47

into the Wild
di Sean Penn
con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian H. Dierker
USA   2007   148′

Into the wild è la libera trasposizione del libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” diventato un classico della sottocultura urbana. Dalla lettura del libro, Sean Penn ha dovuto aspettare ben dieci anni prima di ottenere i diritti. Questa incredibile pazienza testimonia una testarda sensibilità che è unica nel panorama cinematografico di oggi.
Sono due gli elementi che hanno guidato Penn nel doppio binario della regia e della sceneggiatura. Il tema della fuga ma soprattutto quello dell’inseguimento di un qualcosa che faciliti la conoscenza di sé.
Pura celebrazione della libertà e della ricerca della libertà, la pellicola racconta la vera storia di Christopher McCandless, un giovane benestante che rinuncia a tutte le sue sicurezze materiali per immergersi all’interno della natura selvaggia. Il forte trasformismo di Emile Hirsh facilita per lo spettatore un’istantanea immedesimazione in una figura tormentata che non viene dipinta né come giovane avventuriero né come idealista ingenuo. La maestria con cui Penn miscela tematiche così diverse e complesse è unica. Il fascino della selvatichezza dell’ambiente, le difficoltà dei legami di sangue, l’individualismo contro il bisogno di amore e le contraddizioni dell’idealismo nelle sue spinte critiche ma anche arroganti.
Il film ha una valenza politica nonostante questo non sia l’intento di base. Alle volte, si trasforma in un vero e proprio atto di fede il cui credo fugge da tutto ciò che è religioso in senso stretto per trovare sfogo in una dimensione che è solo e unicamente personale. Tutti le persone che Chris incontrerà lungo il suo peregrinare oltre a colmare un vuoto familiare, fonte di profonde sofferenze, amplificano l’idea di un percorso a stadi funzionale a liberarsi da qualsiasi dipendenza da ogni tipo di comfort e privilegio. L’acquisizione della saggezza avviene quasi per osmosi attaverso la spontaneità e la profondità degli incontri fatti.
Ancora più maturo e disinvolto nel lavoro registico, Penn gioca di forti contrasti nell’alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati al costante senso di vuoto del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell’enormità della natura.
MyMovies, Matteo Signa

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