ROBERT DOISNEAU, LA LENTE DELLE MERAVIGLIE Robert Doisneau, le révolté du merveilleux di ClémentineDeroudille con Clémentine Deroudille, ÉricCaravaca, SabineAzéma, Quentin Bajac, Jean-ClaudeCarrière, Philippe Delerm, Annette Doisneau, Robert Doisneau, Annick Geille, Monah H. Gettner Francia 2016 83′
Troppe volte l’opera di Robert Doisneau, uno dei più grandi fotografi del XX secolo, è stata ridotta alla fotografia di “Le Baiser de l’Hôtel de Ville”. Un’immagine che ha conosciuto un destino fuori dal comune. Pubblicata senza rumore sulle pagine di “Life” nel 1950, è soltanto negli anni Ottanta che acquista valore di simbolo. Riprodotta un po’ dappertutto, regala a Doisneau gloria e fortuna e traduce lo spettacolare cambiamento di statuto di una fotografia: da immagine anonima sfogliata dentro un giornale a copia di artista ammirata al museo. Archetipo dell’istantanea, una causa giudiziaria rivela la messa in scena, i due amanti sono attori retribuiti. I francesi si indignano e dimenticano uno dei talenti di Doisneau: dare l’illusione dell’istantanea facendo posare i passanti in un décor urbano reale. Questo bacio ‘preconfezionato’ riassume velocemente e troppo male un’opera umanista, che figlie e nipoti sanno valorizzare e hanno valorizzato trasformando la residenza familiare di Montrouge in un incredibile archivio.
In quella nutrita iconografia, Clémentine Deroudille, nipote del celebre artista, pesca a pieni mani e a cuore pieno, superando l’immagine riduttiva (“Le Baiser de l’Hôtel de Ville”) e vincendo i pregiudizi (lo sguardo di Doisneau è andato oltre Parigi e le banlieue).
Robert Doisneau – La lente delle meraviglie è un ritratto intimo dell’uomo e all’artista. Una lettera d’amore che cerca le parole nelle fotografie inedite, negli home movie, nei video d’archivio e nelle conversazioni con gli amici e i complici di sempre. Da Daniel Pennac a Sabine Azéma, passando per Jean-Claude Carrière, Doisneau si dispiega: “curioso, disubbidiente e paziente come un pescatore con la lenza”. Flâneur del pavé che adorava le nostalgiche banlieue come le nuove architetture, aveva conosciuto la guerra e il fronte, aveva fatto la resistenza senza parlare ma scegliendo di portare uno sguardo di sensibilità sul mondo. Robert Doisneau apparteneva alla categoria dei vagabondi, i vagabondi della fotografia che partecipano a una dimensione umana marginale senza paura di compromettersi con quella mondana. Doisneau firma con Blaise Cendrars, un libro sul petit peuple delle periferie (“Le Banlieue de Paris”), immortalando i poemi visuali della rue, e un contratto esclusivo di tre anni con “Vogue” fotografando l’attualità glamour dell’epoca, i ritratti di personalità, la moda e le cronache aristocratiche di Parigi. Marzia Gandolfi, Mymovies
Commenti disabilitati su IL GESTO DELLO SCATTO VENERDÌ 24 MARZO ORE 20.45
FORZA MAGGIORE Force Majeure di Ruben Östlund con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren, Vincent Wettergren, Kristofer Hivju Francia/Danimarca/Germania 2014 118′
Come in Play, il finale è la parte meno sicura e più stiracchiata dell’insieme, ma in generale Forza Maggiore è una graditissima conferma del talento di Ostlund e del suo cinema dell’assurdo sociale, intelligente e rivelatore. Le lunghe inquadrature a macchina fissa, marchio di fabbrica del regista e dichiarazione aperta di una poetica che aspira a mescolare ironia ed entomologia, si arricchiscono in quest’occasione della potenza evocativa che viene dal paesaggio, dal suo bianco destabilizzante e dalle profondità delle gole, in esterni, ma anche dall’architettura degli interni, tanto moderna quanto a suo modo alienante, e del commento musicale, pensato – non senza divertimento – come una sorta di “destino che bussa alla porta”. La trasferta della famiglia svedese nelle montagne francesi è anche l’occasione, per il regista, per guardarsi dall’esterno e criticare il mito della solidarietà scandinava di contro alla legge della giungla dell’individualismo, del dialogo come pratica consolidata di contro agli accessi d’ira o alle scenate d’isteria, e soprattutto del discorso di genere politicamente corretto, per cui le differenze tra uomini e donne sono diventate un argomento curiosamente tabù. Come nel miglior cinema d’alta montagna, allora, il corpo e la psiche degli attori si muovono in silenziosa corrispondenza con la natura, libera e minacciosa, ma non si pensi ad un film drammatico, perché con Forza Maggiore si ride moltissimo. Come in una commedia degli equivoci, infatti, il virus che ha colpito Tomas e Ebba si diffonde rapidamente ad intaccare le certezze dei loro ospiti più giovani, modificandosi per adattarsi alle diverse condizioni della loro coppia ed esacerbare i loro specifici non detti. Colpito dai risultati di una serie di ricerche che osservavano un incremento dei divorzi nelle coppie sopravvissute ad un’esperienza fortemente drammatica (un dirottamento o uno tsunami, per esempio), Ostlund raccoglie la suggestione e la trasforma in cinema, innescando un parallelismo tra il percorso inarrestabile di un’emozione e quello del tutto simile di una slavina. Basta questo breve resoconto dell’incipit del film per capire che siamo in presenza di un’ottima idea, che il regista svedese, già autore del notevole Play , sa sfruttare al meglio. Tomas e Ebba sono i genitori di Vera e Harry. Tomas lavora molto, dunque questa vacanza sulle Alpi, hotel di lusso e giornate dedicate allo scii tutti insieme, parte con grandi aspettative. Ma accade un imprevisto. Mentre siedono per pranzo ai tavoli all’aperto di un ristorante panoramico, una valanga si dirige a grande velocità verso di loro e pare destinata a travolgerli. L’istinto di Tomas è quello di mettersi in salvo il più in fretta possibile, l’istinto di Ebba è quello di proteggere i figli ed eventualmente morire con loro. La valanga si arresta prima e i quattro rientrano sani e salvi. Ma qualcosa nella coppia si è incrinato ed è una crepa che è destinata ad aprirsi sempre di più. Marianna Cappi , Mymovies.it
Commenti disabilitati su Ruben Östlund, l’estetica della vulnerabilità umana VENERDI’ 17 MARZO 2023 ore 20.45
E’ ARRIVATA MIA FIGLIA! Que Horas Ela Volta? di Anna Muylaert con Regina Casé, Michel Joelsas, Camila Márdila Brasile 2015 114′
Dopo aver affidato la figlia Jessica alle cure e all’educazione di alcuni parenti nel nord del Brasile, Val trova un impiego a São Paulo come governante e svolge il suo lavoro con premura e attenzione. Tredici anni dopo, Jessica si presenta in visita e affronta sua madre criticandone l’atteggiamento succube e spiazzando tutti gli inquilini della casa con il suo comportamento imprevedibile. La regia del film è di Anna Muylaert, acclamata regista e sceneggiatrice, oltre che critica cinematografica, e conosciuta soprattutto per l’eccentrico Durval Discos, e È proibido fumar, Miglior Film al Festival Internacional de Cinema de Brasilia e numerosi altri premi. Grazie a È arrivata mia figlia!’, la regista ha ottenuto un riconoscimento internazionale con il premio speciale della giuria al Sundance e il Gran premio del pubblico al Festival di Berlino. La pellicola affronta una tema molto sentito nella realtà brasiliana, un paradosso sociale risalente al periodo del colonialismo secondo il quale la società sia divisa in ordinamenti invalicabili. Un sistema tanto radicato da plasmare tutt’oggi l’architettura emotiva delle persone. Come racconta Anna Muylaertun, lo storia nasce dal bisogno di parlare di un problema reale ed è proprio per questo che se in un primo momento il progetto era stato pensato seguendo l’approccio di uno stile ricalcante la tradizione del realismo magico brasiliano, poi la regista ha optato per un strada più realistica. Riprendendo le sue parole, È arrivata mia figlia! può essere considerato un film sociale, ma non solo. Il suo approccio diretto “non intende né giudicare né esaltare i personaggi, vuole semplicemente mostrare la nuda verità”. La storia si articola come uno scontro generazionale di due donne, madre e figlia di umili origini, nate nel nordest del Paese. Protagonista è Val, interpretata da Regina Casé, una delle attrici brasiliane più conosciute in ambito teatrale, cinematografico e televisivo. Angela Santomassimo, noteverticali.it
Commenti disabilitati su CINEMA BRASILIANO venerdì 10 marzo ore 20.45
LETIZIA BATTAGLIA SHOOTING THE MAFIA di Kim Longinotto con Letizia Battaglia Irlanda 2018 97′
Vita e carriera di Letizia Battaglia, fotografa palermitana e fotoreporter per il quotidiano L’Ora, raccontata con taglio intimo e privato, a partire dalla sua turbolenta giovinezza. Dal lavoro sulle strade per documentare i morti di mafia, all’impegno in politica con i Verdi e la Rete, Battaglia è stata una figura fondamentale nella Palermo tra gli anni Settanta e Novanta.
“Sono sempre stata una donna in lotta, senza saperlo”. Così dice di sé la siciliana Letizia Battaglia, 84 anni e la testa lucidissima, nel documentario rivelatorio che le dedica Kim Longinotto, regista dal curriculum militante, figlia di un fotografo italiano.
Realizzato montando interviste recenti con spezzoni di film, filmini amatoriali e foto realizzate da Battaglia nel corso della sua lunghissima carriera, Longinotto innesca il racconto portando subito lo spettatore al cuore della donna che domina lo schermo – fisico possente, caschetto tra il rosso e il rosa, sguardo vivace – dipingendo il ritratto esplosivo, in pieno post #metoo, di una gigantessa dell’emancipazione femminile.
Sposata prestissimo, a 16 anni, Battaglia tradisce e lascia il marito, dal quale rischia di farsi sparare addosso (“La sua storia la sapeva tutta Palermo”), e approda alla fotografia solo dopo aver compiuto quarant’anni. Sono gli anni Settanta, quelli della Palermo in cui “capitavano anche cinque omicidi al giorno”, e lei riesce a farsi assumere, prima donna in Italia, come fotoreporter al giornale L’Ora. Le sue foto, rigorosamente in bianco e nero, ritraggono i morti della mafia ma anche i mafiosi in pieno volto, spesso umiliati dai suoi scatti negli attimi successivi all’arresto.
Quel che interessa a Longinotto – ben consapevole della fascinazione che ancora oggi i padrini corleonesi esercitano all’estero – è l’approccio di Battaglia ai suoi soggetti. Il fatto, cioè, che vedesse (e ritraesse) la mafia per quel che era: “gente sciatta e vestita male”, lontana dall’epica moderna del gangster-chic, di cui era inevitabile avere paura. “La mafia a Palermo è ovunque – avverte apocalittico un giornalista inglese in una delle corrispondenze montate all’interno del film – anche al cimitero”.
Il documentario procede ordinatamente, sul piano della cronaca, con l’arco tragico dei massacri di mafia (Falcone e Borsellino), ma il cuore del racconto resta su Battaglia: una donna che ha scelto il lavoro come liberazione, la libertà sessuale come emancipazione, e che nelle fotografie trova qualcosa di più di una semplice realizzazione personale. Fotografare è per Battaglia partecipare: è condividere, ma nel senso più solidale e meno narcisistico del termine. Lasciata la fotografia per la politica, “esperienza umiliante”, Battaglia lascia anche il suo compagno. “Sono rimasta per vent’anni da sola”, dice oggi, per nulla turbata, presentando alla camera di Longinotto il suo nuovo partner di 38 anni più giovane. Una storia d’amore, di ferocia e tenerezza che meritava, davvero, di essere raccontata. Ilaria Ravarino, MyMovies
Commenti disabilitati su Il gesto dello scatto venerdì 24 febbraio ore 20.45
PLAY di Ruben Östlund con Anas Abdirahman, Sebastian Blyckert, Yannick Diakité, Sebastian Hegmar, Abdiaziz Hilowle, Nana Manu, John Ortiz, Kevin Vaz Svezia/Francia/Danimarca 2011 118′
Partendo da un fatto di cronaca molto discusso, Östlund racconta l’odissea di un gruppo di ragazzi che vengono inseguiti, molestati e infine derubati da un gruppo di altri quattro ragazzi neri, che imbastiscono una contorta messa in scena in cui le vittime sono anche gli attori principali. Un soggetto come questo avrebbe potuto essere un potenziale combustibile per alimentare l’odio razziale, ma per Östlund è lo spunto per costruire una riflessione sull’abuso di potere e sul perbenismo della società occidentale. La descrizione delle conseguenze dei processi migratori contemporanei è infatti marginale, perché per il regista tutti i personaggi sono ugualmente svedesi, ponendosi agli antipodi rispetto a una tendenza, sebbene spesso buona negli intenti, di raccontare una minoranza o una categoria protetta in modo edulcorato, annullando le sfumature negative, proponendo una rappresentazione del reale è completamente distaccata dal mondo.
Play rifugge anche da tutti gli stereotipi registici che hanno caratterizzato una certa tipologia di lungometraggi basati sulla rappresentazione di comunità disagiate e marginali: primi piani e camera a mano vengono eliminate in favore di un approccio documentaristico, caratterizzato da inquadrature ampie e movimenti di macchina impercettibili. Queste scelte stilistiche permettono di mantenere un certo distacco dai personaggi, disinibendo completamente l’immedesimazione emotiva dello spettatore. In questo senso, risulta esemplificativa la prima sequenza: interamente ambientata in un centro commerciale, è costituita da una serie di inquadrature che emulano l’estetica e la composizione di quelle registrate da un sistema di sorveglianza a circuito chiuso, introducendo quel voyeurimo che si manterrà per tutta la durata del film, come se spiassimo dei frammenti di vita quotidiana da un punto nascosto. Questo punto di vista viene amplificato attraverso l’uso degli zoom, esclusivamente ottenuti fase in montaggio, che conferiscono un tono distaccato, quasi artificiale, alle riprese.
…
In Play questo approccio viene attualizzato, riflettendo sugli stereotipi oggi radicati anche nella fasce più giovani della popolazione. Per un paradossale ribaltamento, i piccoli criminali recitano semplicemente il ruolo negativo che gli è stato affibbiato da una società caratterizzata da un clima di terrore verso il diverso, ma questo non significa minimizzare le loro azioni violente. L’intento di Östlund è quello di sottolineare come gli schieramenti politici in gioco non sembrino avere alcun interesse nel risolvere il problema delle discriminazioni razziali e delle disuguaglianze sociali, impedendo di fatto l’avanzamento del processo di integrazione.
Questo concetto trova rappresentazione metaforica nella serie di scene in cui una culla viene abbandonata su un treno e nessuno se ne vuole farne carico. Ecco che emerge il nocciolo della questione: la mancanza di una risposta a un grave problema sociale genera violenza, che non è propria solo della banda ma è parte integrante di ogni persona, inclusi gli adulti che entrano in scena ultime scene del film. Tutti i personaggi, nessuno escluso, sono infatti caratterizzati dalla stessa volontà di imporsi sull’altro, di schiacciare l’elemento più debole del contesto. Quella mostrata da Östlund è una società unita nella prevaricazione del prossimo, una tendenza sotterranea ma presente in ogni individuo, un bias che agisce anche in coloro che si riparano dietro ideali universalmente accettati. Davide Rui, 1977 Magazine
Commenti disabilitati su Ruben Östlund, l’estetica della vulnerabilità umana VENERDI’ 17 FEBBRAIO 2023 ore 20.45