HOLLYWOOD PARTY
lunedì 10 Febbraio 2025, 19:30
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The Party
di Blake Edwards
con Peter Sellers, Claudine Longet, Jean Carson, Marge Champion, Al Checco
USA   1968   99′

Probabilmente il film più divertente realizzato dalla coppia Blake Edwards/Peter Sellers, sicuramente quello più iconico. Manifesto di comicità anarchica, film sessantottino per eccellenza in cui libertà espressiva, pacifismo e messa al bando di ogni ordine precostituito passano atraverso una girandola di esilaranti situazioni da cui è impossibile non essere travolti, Hollywood Party è un’opera delirante che procede per accumulo di gag visive e siparietti slapstick, trovando nella concatenazione delle trovate surreali una grande linfa vitale. L’ingenuità e la purezza propria di un bambino del protagonista sono rese magistralmente da Peter Sellers che, in una prova di attore di debordante generosità, offre una delle sue migliori interpretazioni di sempre, non facendo rimpiangere i colossi della comicità a cui si ispira (Buster Keaton e Jerry Lewis, passando per i fratelli Marx). Nonostante la sua carica eversiva appaia oggi smorzata, il film rimane la psichedelica testimonianza di un’epoca, filtrata da un’operazione sottilmente cinefila che recupera la tradizione comica delle origini.
LongTake

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LA RABBIA GIOVANE
domenica 02 Febbraio 2025, 11:23
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Badlands
di Terrence Malick
con Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri, John Carter, Alan Vint
USA   1973   95′

Malick prima di Malick. Per leggere il cinema più recente di questo regista, non semplicemente in un discorso formale ma in relazione a un percorso che lo ha portato alla definizione di una lingua personale, è necessario iniziare dal suo film d’esordio che lo vede anche nel ruolo di sceneggiatore e produttore. Badlands, che è il titolo originale e letteralmente indica una certa conformazione piuttosto aspra del territorio da cui prende nome anche un parco nazionale, è già un chiaro segnale dello spazio che l’ambiente ha rispetto ai personaggi. Prima che esso possa prendere il sopravvento, influenzandone scelte e comportamenti, come accade ad esempio ne I giorni del cielo, opera seconda di Malick, qui entra a far parte della narrazione in una posizione che potremmo chiamare di “correlativo soggettivo”. Perché nodo centrale di una storia che non raggiunge ancora quelle punte di rarefazione alla Tree of Life sono Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek). Lui venticinquenne “si atteggia” a James Dean ed è insoddisfatto della vita – fa i lavori più umili; lei, quindici anni, è un’adolescente matura che si innamora e si lascia trascinare via, impassibile di fronte all’uccisione del padre da parte del ragazzo. Una favola romantica, un dramma, una mitologia di un evento realmente accaduto (il caso della coppia Starkweather-Fugate)?

La rabbia giovane è uno degli esordi più sorprendenti proprio perché sovverte le convenzioni e si pone in un non-luogo dove il tempo sfugge alla Storia e ne lascia una eco appena percettibile in quel malessere che paradossalmente non appartiene solo a una generazione. Sì, c’è la figura leggendaria di Dean che viene rievocata neanche senza troppe velature, però non siamo più confinati nel recinto familiare de La valle dell’Eden o di Gioventù bruciata. È una gioventù, questa rappresentata da Malick, che si è già emancipata da padri severi – Holly non piange la morte a sangue freddo del genitore, né sembra scossa. L’indifferenza con cui Kit fa fuori chi prova a fermarli è allora figlia di un sentimento di spaesamento e alienazione nei confronti di un momento storico. Malick, volutamente, non dà le coordinate per orientarsi in questa perdita dell’innocenza, non tenta di ricomporre le parti del quadro, e si affida a un punto di vista interno che è quello della protagonista.

Normalmente la voce narrante nel cinema viene considerata un elemento aggiuntivo rispetto al potere evocativo delle immagini e spesso si tende a limitarla, se non a demonizzarla soprattutto laddove esista un riferimento di matrice letteraria – tradurre significa “trasfigurare”. Malick la riconduce a un carattere introspettivo, quasi come fosse una confidenza dei personaggi rivolta a un tentativo di messa a fuoco dei loro stati, piuttosto che assegnarle una funzione di tipo esplicativo. La riprova di questo approccio, che travalica quindi l’uso più consueto della voce narrante, sta nel fatto che alla fine le ragioni che muovono Kit a ribellarsi restano in qualche modo sospese: la stessa Holly parla di stato d’incoscienza, di disperazione e dopo l’ennesima sparatoria abbandonerà il ragazzo al suo destino.

Lo spettatore viene circoscritto in uno spazio che è delimitato dallo sguardo stesso dei protagonisti: è assente in Malick la volontà di spingersi oltre per estendere il raggio a una narrazione di campo e contro-campo, da una parte i ricercati e dall’altra la polizia che è sulle loro tracce. E questo sposta inevitabilmente l’attenzione dall’azione, qui intesa come fuga verso la libertà alla Bonnie e Clyde, alla reazione che Kit ha di fronte all’incursione di “elementi” che, pur appartenendo al loro mondo, ne sono estranei. L’unico momento straniante rispetto a una figurazione interiore, ma forse è anch’esso frutto in una prospettiva d’immaginazione di Holly, è la sequenza in bianco e nero che ci proietta all’esterno: le immagini vengono assemblate a mo’ di notiziario recuperando per un attimo quella dimensione di cronaca di un fatto d’attualità.

Per il resto del film danziamo in una realtà sognante abbracciati a King Cole in uno dei lenti più romanticamente assurdi – i corpi di Kit e Holly illuminati dai fari dell’automobile riflettono le loro ombre sullo sterrato dell’autostrada. La musica-guida di Carl Orff poi è un ritorno a un’età mitica, di purezza, “piena di cose che danno il piacere solo a guardarle”. È la natura, habitat per eccellenza dell’essere umano sin dalle origini: i protagonisti costruiscono una casetta sull’albero in una foresta attraversata da un fiume; hanno anche una gallina. Si spostano lungo ampie distese, ambienti primitivi inframmezzati giusto da qualche segno di civiltà. La loro condizione diviene parte stessa di quel paesaggio che Kit fissa al tramonto fino a sera fermo in posa come uno spaventapasseri: “Vivevamo nel più completo isolamento, un po’ qui un po’ la. Secondo Kit avrei dovuto dire solitudine perché si adatta più al mio stato d’animo”.
Sentieri Selvaggi, Marco Bolsi

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CHE HO FATTO IO PER MERITARE QUESTO?
lunedì 20 Gennaio 2025, 12:03
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¿Qué he hecho yo para merecer esto?
di Pedro Almodóvar
con Carmen Maura, Verónica Forqué, Ángel De Andrés López, Gonzalo Suarez, Luis Hostalot
Spagna   1984   99′

Quarantotto ore della vita di una eccentrica famiglia residente in uno dei grandi palazzoni della periferia di Madrid costruiti dal franchismo durante il boom economico, tra tragicomiche avventure domestiche, incomprensioni familiari e rassegnazione a una triste esistenza.  

Che ho fatto io per meritare questo? segna una svolta nell’itinerario cinematografico di Pedro Almodóvar che, con questa pellicola, ha saputo dare vigorosa organicità alle istanze proposte negli acerbi film precedenti, in cui derive grottesche e ostentata trasgressione faticavano ancora a rispecchiarsi in una precisa idea di cinema. Il filone a cui si ispira il talentuoso cineasta iberico è il “neorealismo spagnolo” delle amare commedie a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, incentrate sulla vita quotidiana del proletariato appena urbanizzato. “Film da camera”, nel quale i personaggi si muovono come in un acquario sotto lo sguardo implacabile del demiurgo-regista. Niente e nessuno viene risparmiato in questa rappresentazione irridente e nichilista della società ispanica in cui a prevalere è la cura per i dettagli visivi e sonori del microcosmo proletario in cui la vicenda si dipana. Personaggi sopra le righe, situazioni paradossali, commistione di generi che tende ad esasperare i sentimenti: seppur in una forma ancora rozza, c’è tutto il meglio di Pedrito. Strepitosa Carmen Maura, capace di tenere le fila di un delirante (e spassoso) quadro familiare.
LongTake

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PIOVONO PIETRE
lunedì 13 Gennaio 2025, 18:22
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Raining Stones
di Ken Loach
con Bruce Jones, Julie Brown, Gemma Phoenix, Ricky Tomlinson, Tom Hickey
Gran Bretagna   1993   90′

“Quando piove sui poveri, piovono pietre…”  Proverbio Inglese

Scene di sottoproletariato urbano a Manchester. Il cinema con il pugno alzato di Ken Loach sempre dalla parte dei lavoratori, dei fratelli/figli unici malpagati, frustrati e sottomessi. Il disoccupato Bob (Bruce Jones) cerca disperatamente le sterline necessarie per il vestito della comunione della figlia Coleen (Gemma Phoenix): pur aiutato dallo sbandato Tommy (Ricky Tomlinson) e dalla devota moglie Anne (Julie Brown) finirà nella mani dello spietato strozzino Tansey (Jonathan James).

In Piovono pietre c’è un compendio di tutto il cinema di Ken Loach con inserti umoristici che alleggeriscono una narrazione ad alta tensione drammatica. La religione è l’oppio dei popoli e attorno la società neo-liberista post thatcheriana gira in direzione ostinata e contraria, lasciando lapidare i più poveri. Sia il politico laburista che quello conservatore sembrano distanti dai problemi di sopravvivenza della gente. L’unica figura capace di modificare la realtà è quella del prete Barry (Tom Hickey) che compie un’ azione fuori dall’ordinario e in senso opposto ai dettami religiosi. Per Bob, che si riduce a rubare un montone scambiandolo per una pecora, a sturare le fogne coprendosi di merda, a rubare zolle di terra dal prato dei conservatori, a fare il buttafuori in una discoteca, sembra non arrivare mai il segno del riscatto. Gli rubano il furgone, lo massacrano di botte, gli minacciano la famiglia in una scena quasi tarantiniana.

Ken Loach fa schierare lo spettatore dalla parte di Bob dipingendogli attorno un quadretto folcloristico: l’ amico Tommy è un fallito che si diverte a raccontare barzellette (quella dell’invalido a Lourdes è quasi una metafora) ed è mantenuto dalla figlia spacciatrice; la cattolica Anne si vergogna di prendere la pillola e non riesce a trovare un impiego stabile. La fotografia grigia e sfocata rispecchia la solitudine degli ambienti mentre la musica di Stewart Copeland accompagna la via crucis del sottoproletariato con un crescendo di percussioni. Bob si incaponisce a volere trovare i soldi per la figlia perché anche lui è entrato nel gioco capitalistico del dovere mostrare ciò che non si possiede, con un orgoglio piccolo borghese che è una forma di autodistruzione di classe. Autodistruzione che si attua silenziosamente attraverso l’alcol e la droga gentilmente forniti dal sistema. L’unica forma di resistenza è la solidarietà tra poveri, il fare muro contro regole e doveri che rendono perennemente schiavi.

Ken Loach guarda al Neorealismo italiano ma lo arricchisce delle influenze della New Wave Britannica e del Kitchen Sink Realism di inizio anni ’60. Gli attori sono semiprofessionisti, le inflessioni dialettali spesso incomprensibili, lo sfondo urbano claustrofobico. La scrittura da parte di Jim Allen crea un effetto valanga che porta alla svolta e al colpo di scena nel montaggio parallelo tra il rito della comunione e l’arrivo della polizia a casa di Bob. Scene indimenticabili sono quella iniziale con i maldestri tentativi di Bob e Tommy di piazzare la carne di montone, le imbarazzanti lezioni di catechismo alla piccola Coleen e il dialogo finale tra Bob e il prete Barry sul concetto di giustizia.

Premio della giuria al Festival di Cannes, Piovono pietre è una rappresentazione anti retorica del calvario del sottoproletariato in un società ingiusta che emargina i più deboli. Ken Loach lascia immaginare un futuro ancora possibile per questo quarto stato malpagato, sfruttato, calpestato e odiato. Mio fratello Bob è figlio unico perché va avanti a testa bassa nonostante piovano pietre. E ti amo Bob.

Sentieri Selavggi, Fabio Fulfaro

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SMOKE
lunedì 06 Gennaio 2025, 18:52
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di Wayne Wang e Paul Auster
con Harvey Keitel, William Hurt, Forest Whitaker, Stockard Channing, Ashley Judd, Victor Argo
USA   1995   100′

Come si può parlare del “Santo patrono della letteratura di Brooklyn” – così lo chiama il New York Times – senza sentirsi piccoli a confronto? Paul Auster si è spento a New York a 77 anni, indebolito da un cancro ai polmoni per cui si curava da anni. Trentaquattro libri tra cui diciotto romanzi, pubblicati tutti a partire dagli anni Ottanta, tranne le raccolte di poesie. Quelle sono arrivate prima, come un istinto naturale, già da ragazzo. Già in vita era considerato fra i più grandi del postmodernismo, insieme all’amico Don DeLillo, che invitava spesso nel suo salotto di Park Slope, fra le brownstone di Brooklyn, quando ancora non andava di moda attraversare il ponte e perdersi oltre il confine del Dumbo, dove Manhattan non si vede più nemmeno all’orizzonte. Lì le strade sono ugualmente numerate, ma è un mondo diverso rispetto alla 5th Avenue, Central Park o alla stessa Columbia University, dove Auster ha studiato prima di rifugiarsi per diversi anni a Parigi. È diverso anche dal Bed-Stuy (quartiere poco più a nord) raccontato da Spike Lee, negli stessi anni al cinema. È un microcosmo di cui Auster diventa il primo e a modo suo unico narratore. “Inaffidabile”, come vuole la letteratura postmoderna, perché costantemente coinvolto in ciò che racconta. Personaggio interno alle sue stesse narrazioni.

Come parlarne, dunque, come descrivere la portata di ciò che è stato il suo lavoro, in poche righe? Da grande scrittore qual era, per fortuna, ci aveva già pensato lui. In un’intervista poi pubblicata in L’arte della fame affermava che le sue storie erano come delle favole. Non lontane dai racconti dei fratelli Grimm o dalle Mille e una notte: “Narrazioni scarne, prive di dettagli, in cui tuttavia enormi quantità di informazioni vengono trasmesse in uno spazio molto breve, con pochissime parole”. Lo diceva a proposito dell’adattamento dei suoi scritti in opere cinematografiche (due co-regia, due regie e sei sceneggiature) sottintendendo tuttavia l’impossibilità di trasferire in un’inquadratura tutto ciò che le sue parole volevano evocare. “Il testo è il trampolino di lancio. La mente riempie poi nei dettagli se stessa, crea le immagini”. Ecco, forse però sono i suoi stessi film a contraddirlo o, almeno, quel grande film che è Smoke (1995), co-diretto da Auster e Wayne Wang e Orso d’argento alla Berlinale.

È in parte vero che la narrazione è scarna e priva di dettagli. Smoke è un cinema che non indugia sui volti, non indaga gli spazi, non scava alla ricerca di qualcosa di più. Aleggia intorno ai protagonisti, come il fumo delle loro sigarette e dei loro sigari Schimmelpenninck (i preferiti di Auster). Il suo senso resta nell’invisibile, “nel peso del fumo” che si scopre solo arrivando al mozzicone, quando cioè il film, sui titoli di coda cantati da Tom Waits, lascia la sensazione di aver capito qualcosa in più dell’umanità, per essersi fermati ad ascoltarla. Paul, Rashid, Ruby, Cyrus e Auggie, i personaggi di Smoke, sono cinque sconosciuti, ognuno con un segreto destinato a tornare a galla. Cinque persone che entrano in contatto per caso e, sempre per caso, vedono le loro vite trasformarsi. Parlano di baseball e di Bachtin, di amore e di morte, di crack e di denaro. L’intero film, tranne le ultime sequenze, è ambientato nell’estate del 1990. Poco prima della guerra del Golfo, come si sente in radio. Paul Benjamin, interpretato da William Hurt, è dichiaratamente un alter ego di Auster, non solo perché vi si identifica attraverso il nome, già noto pseudonimo dell’autore, ma perché rappresenta il “narratore inaffidabile” da lui messo in atto.

Paul cioè si intrufola, guida spesso le interazioni degli altri personaggi, indirizza le conversazioni e i loro dialoghi. È solo una parte della storia ma al tempo stesso l’occhio onnisciente, “regista” non a caso del ritmo e del movimento del film. Tra i temi ricorrenti di Auster, Paul rappresenta quello della ricerca identitaria, che si traduce nel riflesso continuo della figura narrante all’interno della storia. Il rapporto padre-figlio, altro tema molto caro ad Auster, invece, è affrontato tanto nel legame fra Paul e Rashid quanto nei segmenti dedicati a Rashid e Cyrus. Ed è curioso che i due attori che interpretano questi ultimi, Harold Perrineau e Forest Whitaker, siano in realtà coetanei. In modo inconscio rappresentano già una genitorialità impossibile, una relazione sbilanciata o forse del tutto inesistente. Elemento autobiografico, questo, su cui Auster si è spesso interrogato anche in altre opere, come Il libro delle illusioni.

Gli unici personaggi che sembrano sfuggire al controllo di Paul sono Ruby (Stockard Channing) e Auggie (Harvey Keitel). Ruby resta un mistero, svanisce così come arriva e sconvolge per un breve momento la vita dell’imperturbabile uomo, tabaccaio di quartiere con una particolare passione per la fotografia. Più che un hobby, la sua è una filosofia di vita, un altro modo di guardare il mondo trasformarsi. In un certo senso è anche metafora del cinema stesso o della cultura delle immagini. Tutti gli scatti, apparentemente identici del suo “angolo di mondo”, infatti, immortalano l’esterno della tabaccheria allo stesso orario, ogni giorno. Servono a incontrare e conoscere casualmente gli abitanti del quartiere, tanto quanto serve imparare a memoria la marca di sigari che fumano o il numero di pacchetti che comprano ogni giorno. Sono diversi, piccoli, dettagli che fanno di Auggie un osservatore e quindi narratore di talento, come nota Paul, che proprio ascoltando una sua storia, messa in scena nel finale, si ispira – a ritroso – per l’intero film appena visto.

In un continuo gioco di specchi, Smoke, infatti, è l’adattamento del vero racconto pubblicato da Auster nel Natale del 1990 sul New York Times e citato all’interno del film. Il racconto di Natale di Auggie Wren, questo il titolo, è poi messo in scena brevemente alla fine, raddoppiato dopo la descrizione orale del personaggio di Keitel. È in questo finale che, ancora oggi a distanza di quasi trent’anni, si percepisce la forza della scrittura di Auster. Nel modo in cui ogni spettatore immagina la scena nella sua mente, guardando soltanto il primo piano sempre più stretto di Auggie e i rivoli di fumo dei Schimmelpenninck. E come invece, poi, la regia la mette in scena. “Narrazioni scarne” sì, ma enormi e soprattutto indimenticabili “quantità di informazioni”, di nuovo, appunto.

The Hollywood Reporter, Valeria Verbaro

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GRAND BUDAPEST HOTEL
sabato 14 Dicembre 2024, 00:08
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The Grand Budapest Hotel
di Wes Anderson

con Adrien Brody, Anthony Quinonez, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Florian Lukas, Giselda Volodi, Harvey Keitel, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum, Jude Law, Larry Pine, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Owen Wilson, Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Willem Dafoe
Germania/USA   2014   96′

Una ragazza legge un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro avvenuto anni prima, durante il quale un anziano signore raccontò a sua volta una storia.
Con Moonrise Kingdom Wes Anderson ha scoperto il tempo, e ora ha deciso di usarlo come ha sempre usato lo spazio: incorniciandolo, trasformandolo in una cartolina, la cartolina ricordo di un sentimento di nostalgia. Il suo nuovo film, Grand Budapest Hotel, ha quattro decenni di storia – gli anni Duemila, gli anni Ottanta, gli anni Sessanta e gli anni Trenta – che corrispondono ad altrettanti livelli di racconto e, come matriosche, stanno uno dentro l’altro.

Il mondo di Anderson è ancora lì dove è sempre stato, in un altrove irraggiungibile in cui sarebbe bello abitare, ma in più ha la sua componente onirica, addirittura decadente. Non più il fumetto, la polaroid di famiglia o la testa di cinghiale da modernariato: le immagini di Grand Budapest Hotel sono figurine Liebig, illustrazioni da latta dei biscotti, trasferiscono nella cornice della cornice della cornice l’immagine ideale della Mitteleuropa, fasulla come già negli anni ’30 delle operette alla Lubitsch e dei film Yiddish di Ulmer; ideale e idealizzata come il “mondo di ieri” di Stefan Zweig, i cui scritti, scopro alla fine film, sono alla base del film. Ma quelli di Zweig erano i ricordi di un europeo, mentre quelli di Anderson sono i sogni di un bricoleur, americano per nascita, sradicato per vocazione, ora mitteleuropeo per vagheggiamento, o forse divertimento.

Grand Budapest Hotel è infatti un divertimento spensierato e leggero, una storia di concierge e lobby boy, di omicidi ed etichetta, di lotte per l’eredità e fughe rocambolesche, in cui Anderson si libera per una volta dal dolore attonito tipico dei suoi figli senza padri.

Tutto quello che ci si aspetta dal suo cinema, ovviamente c’è: i carrelli laterali, i carrelli in avanti, le immagini simmetriche, le scenografie disegnate, l’umorismo caustico e la rabbia che esplode improvvisa… C’è tutto. Ma ci sono anche una sana rozzezza da turpiloquio e una rappresentazione della violenza poco stilizzata che provocano una piacevole sensazione di sfasamento, non un delirio freudiano alla Maddin (il cui magnifico Carefulpotrebbe essere un modello per Grand Budapest Hotel), ma un sogno più sinistro di quello che sembra.

La doppia, triplice, anzi quadrupla cornice scelta da Anderson porta infatti così a fondo nella spirale della Storia da generare strappi di energia inattesa, con la magnifica immagine del treno fittizio di Lettera a una sconosciuta (anche quello tratto da Zweig, e non è mica un caso) che torna più volte nel film ad evocare ancora una volta il potere del cinema di plasmare il tempo e i sogni come materia concreta, e pure un po’ vischiosa.

cineforum, Roberto Manassero

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