Raining Stones di Ken Loach con Bruce Jones, Julie Brown, Gemma Phoenix, Ricky Tomlinson, Tom Hickey Gran Bretagna 1993 90′
“Quando piove sui poveri, piovono pietre…” Proverbio Inglese
Scene di sottoproletariato urbano a Manchester. Il cinema con il pugno alzato di Ken Loach sempre dalla parte dei lavoratori, dei fratelli/figli unici malpagati, frustrati e sottomessi. Il disoccupato Bob (Bruce Jones) cerca disperatamente le sterline necessarie per il vestito della comunione della figlia Coleen (Gemma Phoenix): pur aiutato dallo sbandato Tommy (Ricky Tomlinson) e dalla devota moglie Anne (Julie Brown) finirà nella mani dello spietato strozzino Tansey (Jonathan James).
In Piovono pietre c’è un compendio di tutto il cinema di Ken Loach con inserti umoristici che alleggeriscono una narrazione ad alta tensione drammatica. La religione è l’oppio dei popoli e attorno la società neo-liberista post thatcheriana gira in direzione ostinata e contraria, lasciando lapidare i più poveri. Sia il politico laburista che quello conservatore sembrano distanti dai problemi di sopravvivenza della gente. L’unica figura capace di modificare la realtà è quella del prete Barry (Tom Hickey) che compie un’ azione fuori dall’ordinario e in senso opposto ai dettami religiosi. Per Bob, che si riduce a rubare un montone scambiandolo per una pecora, a sturare le fogne coprendosi di merda, a rubare zolle di terra dal prato dei conservatori, a fare il buttafuori in una discoteca, sembra non arrivare mai il segno del riscatto. Gli rubano il furgone, lo massacrano di botte, gli minacciano la famiglia in una scena quasi tarantiniana.
Ken Loach fa schierare lo spettatore dalla parte di Bob dipingendogli attorno un quadretto folcloristico: l’ amico Tommy è un fallito che si diverte a raccontare barzellette (quella dell’invalido a Lourdes è quasi una metafora) ed è mantenuto dalla figlia spacciatrice; la cattolica Anne si vergogna di prendere la pillola e non riesce a trovare un impiego stabile. La fotografia grigia e sfocata rispecchia la solitudine degli ambienti mentre la musica di Stewart Copeland accompagna la via crucis del sottoproletariato con un crescendo di percussioni. Bob si incaponisce a volere trovare i soldi per la figlia perché anche lui è entrato nel gioco capitalistico del dovere mostrare ciò che non si possiede, con un orgoglio piccolo borghese che è una forma di autodistruzione di classe. Autodistruzione che si attua silenziosamente attraverso l’alcol e la droga gentilmente forniti dal sistema. L’unica forma di resistenza è la solidarietà tra poveri, il fare muro contro regole e doveri che rendono perennemente schiavi.
Ken Loach guarda al Neorealismo italiano ma lo arricchisce delle influenze della New Wave Britannica e del Kitchen Sink Realism di inizio anni ’60. Gli attori sono semiprofessionisti, le inflessioni dialettali spesso incomprensibili, lo sfondo urbano claustrofobico. La scrittura da parte di Jim Allen crea un effetto valanga che porta alla svolta e al colpo di scena nel montaggio parallelo tra il rito della comunione e l’arrivo della polizia a casa di Bob. Scene indimenticabili sono quella iniziale con i maldestri tentativi di Bob e Tommy di piazzare la carne di montone, le imbarazzanti lezioni di catechismo alla piccola Coleen e il dialogo finale tra Bob e il prete Barry sul concetto di giustizia.
Premio della giuria al Festival di Cannes, Piovono pietre è una rappresentazione anti retorica del calvario del sottoproletariato in un società ingiusta che emargina i più deboli. Ken Loach lascia immaginare un futuro ancora possibile per questo quarto stato malpagato, sfruttato, calpestato e odiato. Mio fratello Bob è figlio unico perché va avanti a testa bassa nonostante piovano pietre. E ti amo Bob.
di Wayne Wang e Paul Auster con Harvey Keitel, William Hurt, Forest Whitaker, Stockard Channing, Ashley Judd, Victor Argo USA 1995 100′
Come si può parlare del “Santo patrono della letteratura di Brooklyn” – così lo chiama il New York Times – senza sentirsi piccoli a confronto? Paul Auster si è spento a New York a 77 anni, indebolito da un cancro ai polmoni per cui si curava da anni. Trentaquattro libri tra cui diciotto romanzi, pubblicati tutti a partire dagli anni Ottanta, tranne le raccolte di poesie. Quelle sono arrivate prima, come un istinto naturale, già da ragazzo. Già in vita era considerato fra i più grandi del postmodernismo, insieme all’amico Don DeLillo, che invitava spesso nel suo salotto di Park Slope, fra le brownstone di Brooklyn, quando ancora non andava di moda attraversare il ponte e perdersi oltre il confine del Dumbo, dove Manhattan non si vede più nemmeno all’orizzonte. Lì le strade sono ugualmente numerate, ma è un mondo diverso rispetto alla 5th Avenue, Central Park o alla stessa Columbia University, dove Auster ha studiato prima di rifugiarsi per diversi anni a Parigi. È diverso anche dal Bed-Stuy (quartiere poco più a nord) raccontato da Spike Lee, negli stessi anni al cinema. È un microcosmo di cui Auster diventa il primo e a modo suo unico narratore. “Inaffidabile”, come vuole la letteratura postmoderna, perché costantemente coinvolto in ciò che racconta. Personaggio interno alle sue stesse narrazioni.
Come parlarne, dunque, come descrivere la portata di ciò che è stato il suo lavoro, in poche righe? Da grande scrittore qual era, per fortuna, ci aveva già pensato lui. In un’intervista poi pubblicata in L’arte della fame affermava che le sue storie erano come delle favole. Non lontane dai racconti dei fratelli Grimm o dalle Mille e una notte: “Narrazioni scarne, prive di dettagli, in cui tuttavia enormi quantità di informazioni vengono trasmesse in uno spazio molto breve, con pochissime parole”. Lo diceva a proposito dell’adattamento dei suoi scritti in opere cinematografiche (due co-regia, due regie e sei sceneggiature) sottintendendo tuttavia l’impossibilità di trasferire in un’inquadratura tutto ciò che le sue parole volevano evocare. “Il testo è il trampolino di lancio. La mente riempie poi nei dettagli se stessa, crea le immagini”. Ecco, forse però sono i suoi stessi film a contraddirlo o, almeno, quel grande film che è Smoke (1995), co-diretto da Auster e Wayne Wang e Orso d’argento alla Berlinale.
È in parte vero che la narrazione è scarna e priva di dettagli. Smoke è un cinema che non indugia sui volti, non indaga gli spazi, non scava alla ricerca di qualcosa di più. Aleggia intorno ai protagonisti, come il fumo delle loro sigarette e dei loro sigari Schimmelpenninck (i preferiti di Auster). Il suo senso resta nell’invisibile, “nel peso del fumo” che si scopre solo arrivando al mozzicone, quando cioè il film, sui titoli di coda cantati da Tom Waits, lascia la sensazione di aver capito qualcosa in più dell’umanità, per essersi fermati ad ascoltarla. Paul, Rashid, Ruby, Cyrus e Auggie, i personaggi di Smoke, sono cinque sconosciuti, ognuno con un segreto destinato a tornare a galla. Cinque persone che entrano in contatto per caso e, sempre per caso, vedono le loro vite trasformarsi. Parlano di baseball e di Bachtin, di amore e di morte, di crack e di denaro. L’intero film, tranne le ultime sequenze, è ambientato nell’estate del 1990. Poco prima della guerra del Golfo, come si sente in radio. Paul Benjamin, interpretato da William Hurt, è dichiaratamente un alter ego di Auster, non solo perché vi si identifica attraverso il nome, già noto pseudonimo dell’autore, ma perché rappresenta il “narratore inaffidabile” da lui messo in atto.
Paul cioè si intrufola, guida spesso le interazioni degli altri personaggi, indirizza le conversazioni e i loro dialoghi. È solo una parte della storia ma al tempo stesso l’occhio onnisciente, “regista” non a caso del ritmo e del movimento del film. Tra i temi ricorrenti di Auster, Paul rappresenta quello della ricerca identitaria, che si traduce nel riflesso continuo della figura narrante all’interno della storia. Il rapporto padre-figlio, altro tema molto caro ad Auster, invece, è affrontato tanto nel legame fra Paul e Rashid quanto nei segmenti dedicati a Rashid e Cyrus. Ed è curioso che i due attori che interpretano questi ultimi, Harold Perrineau e Forest Whitaker, siano in realtà coetanei. In modo inconscio rappresentano già una genitorialità impossibile, una relazione sbilanciata o forse del tutto inesistente. Elemento autobiografico, questo, su cui Auster si è spesso interrogato anche in altre opere, come Il libro delle illusioni.
Gli unici personaggi che sembrano sfuggire al controllo di Paul sono Ruby (Stockard Channing) e Auggie (Harvey Keitel). Ruby resta un mistero, svanisce così come arriva e sconvolge per un breve momento la vita dell’imperturbabile uomo, tabaccaio di quartiere con una particolare passione per la fotografia. Più che un hobby, la sua è una filosofia di vita, un altro modo di guardare il mondo trasformarsi. In un certo senso è anche metafora del cinema stesso o della cultura delle immagini. Tutti gli scatti, apparentemente identici del suo “angolo di mondo”, infatti, immortalano l’esterno della tabaccheria allo stesso orario, ogni giorno. Servono a incontrare e conoscere casualmente gli abitanti del quartiere, tanto quanto serve imparare a memoria la marca di sigari che fumano o il numero di pacchetti che comprano ogni giorno. Sono diversi, piccoli, dettagli che fanno di Auggie un osservatore e quindi narratore di talento, come nota Paul, che proprio ascoltando una sua storia, messa in scena nel finale, si ispira – a ritroso – per l’intero film appena visto.
In un continuo gioco di specchi, Smoke, infatti, è l’adattamento del vero racconto pubblicato da Auster nel Natale del 1990 sul New York Times e citato all’interno del film. Il racconto di Natale di Auggie Wren, questo il titolo, è poi messo in scena brevemente alla fine, raddoppiato dopo la descrizione orale del personaggio di Keitel. È in questo finale che, ancora oggi a distanza di quasi trent’anni, si percepisce la forza della scrittura di Auster. Nel modo in cui ogni spettatore immagina la scena nella sua mente, guardando soltanto il primo piano sempre più stretto di Auggie e i rivoli di fumo dei Schimmelpenninck. E come invece, poi, la regia la mette in scena. “Narrazioni scarne” sì, ma enormi e soprattutto indimenticabili “quantità di informazioni”, di nuovo, appunto.
sabato 14 Dicembre 2024, 00:08
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The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson con Adrien Brody, Anthony Quinonez, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Florian Lukas, Giselda Volodi, Harvey Keitel, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum, Jude Law, Larry Pine, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Owen Wilson, Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Willem Dafoe Germania/USA 2014 96′
Una ragazza legge un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro avvenuto anni prima, durante il quale un anziano signore raccontò a sua volta una storia. Con Moonrise Kingdom Wes Anderson ha scoperto il tempo, e ora ha deciso di usarlo come ha sempre usato lo spazio: incorniciandolo, trasformandolo in una cartolina, la cartolina ricordo di un sentimento di nostalgia. Il suo nuovo film, Grand Budapest Hotel, ha quattro decenni di storia – gli anni Duemila, gli anni Ottanta, gli anni Sessanta e gli anni Trenta – che corrispondono ad altrettanti livelli di racconto e, come matriosche, stanno uno dentro l’altro.
Il mondo di Anderson è ancora lì dove è sempre stato, in un altrove irraggiungibile in cui sarebbe bello abitare, ma in più ha la sua componente onirica, addirittura decadente. Non più il fumetto, la polaroid di famiglia o la testa di cinghiale da modernariato: le immagini di Grand Budapest Hotel sono figurine Liebig, illustrazioni da latta dei biscotti, trasferiscono nella cornice della cornice della cornice l’immagine ideale della Mitteleuropa, fasulla come già negli anni ’30 delle operette alla Lubitsch e dei film Yiddish di Ulmer; ideale e idealizzata come il “mondo di ieri” di Stefan Zweig, i cui scritti, scopro alla fine film, sono alla base del film. Ma quelli di Zweig erano i ricordi di un europeo, mentre quelli di Anderson sono i sogni di un bricoleur, americano per nascita, sradicato per vocazione, ora mitteleuropeo per vagheggiamento, o forse divertimento.
Grand Budapest Hotel è infatti un divertimento spensierato e leggero, una storia di concierge e lobby boy, di omicidi ed etichetta, di lotte per l’eredità e fughe rocambolesche, in cui Anderson si libera per una volta dal dolore attonito tipico dei suoi figli senza padri.
Tutto quello che ci si aspetta dal suo cinema, ovviamente c’è: i carrelli laterali, i carrelli in avanti, le immagini simmetriche, le scenografie disegnate, l’umorismo caustico e la rabbia che esplode improvvisa… C’è tutto. Ma ci sono anche una sana rozzezza da turpiloquio e una rappresentazione della violenza poco stilizzata che provocano una piacevole sensazione di sfasamento, non un delirio freudiano alla Maddin (il cui magnifico Carefulpotrebbe essere un modello per Grand Budapest Hotel), ma un sogno più sinistro di quello che sembra.
La doppia, triplice, anzi quadrupla cornice scelta da Anderson porta infatti così a fondo nella spirale della Storia da generare strappi di energia inattesa, con la magnifica immagine del treno fittizio di Lettera a una sconosciuta (anche quello tratto da Zweig, e non è mica un caso) che torna più volte nel film ad evocare ancora una volta il potere del cinema di plasmare il tempo e i sogni come materia concreta, e pure un po’ vischiosa.
martedì 10 Dicembre 2024, 11:31
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di Jean-Pierre e Luc Dardenne con Émilie Dequenne, Fabrizio Rongione, Anne Yernaux, Olivier Gourmet, Bernard Marbaix, Frédéric Bodson Belgio/Francia 1999 96′
È impossibile prendere le distanze da Rosetta perché la macchina da presa è sempre lì con lei, e così noi: seguiamo la sua vita, quella quotidianità fatta di azioni ripetute, semplici e mai banali, di silenzi e di respiri, di pensieri trattenuti che hanno la capacità di concretizzarsi in un gesto, estremo. La sua indomita ricerca di una normalità è il grido di ribellione di tanti giovani che decidono di vivere onestamente e di denunciare, senza paura delle conseguenze, chi si fa beffa degli altri per il proprio tornaconto. Rosetta è indiscutibilmente un film sul presente, di ieri e di oggi, che con tenacia si avvinghia alla realtà e lascia i segni di una rabbia sofferta: la protagonista si sposta incessantemente per la città per trovare un lavoro, una casa vera, un amico (Fabrizio Rongione); trascina il corpo imperturbabile della madre (Anne Yernaux) che prova a salvare da una fine rovinosa, e resta lei stessa invischiata in un fiumiciattolo fangoso perché in fondo la sua è una battaglia in solitaria contro una macchina-mostro fagocita-speranze. In questo movimento carico di fatica e frustrazione, come i sacchi di farina che la ragazza solleva per versarli nell’impasto, si inserisce un movimento leggero e misurato – momenti di felicità – che scorrono lungo una piega accennata della bocca o lungo i passi di un ballo che non si conosce.
I Dardenne, registi e sceneggiatori, avevano già avuto un riscontro internazionale qualche anno prima con La promesse, che metteva al centro sempre un giovane e la sua volontà di riscatto in un mondo di emarginati. Qui si allontanano dalle classiche convenzioni drammaturgiche offrendoci un dramma interiore alla storia stessa, attraverso un linguaggio ancora più maturo ed essenziale che non ha bisogno di artifici estetici e narrativi. Il film fa un uso parco della parola, non indugia sulla retorica né vuole esaurire un discorso che resta sospeso e che si allarga a un’intera generazione: pensiamo ad esempio all’ambiente urbano, una periferia in abbandono, descritto con pochi tratti che non permettono un’assoluta identificazione geografica. Un cinema certo del sociale che però ha solo l’ambizione di mostrare e porre interrogativi – alla fine Rosetta vince: viene assunta, ma poco dopo si licenzia; è davvero questo ciò che voleva? In questo scarto tra pubblico e privato, visione collettiva, comunemente accettata, e sguardo personale e complesso, a volte contraddittorio, sta l’autenticità di un cinema che non imita la vita ma è un tutt’uno con essa. Nel 1999 Rosetta si aggiudica la Palma d’oro, e la protagonista Émilie Dequenne il premio per la miglior interpretazione femminile; in gara c’era anche Tutto su mia madre: due film così lontani (eppure) così vicini legati inconsapevolmente da quell’uguaglianza tra arte e esistenza. Sentieri Selvaggi, Marco Bolsi
lunedì 02 Dicembre 2024, 12:45
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NUVOLE IN VIAGGIO Kauas pilvet karkaavat di Aki Kaurismäki con Kari Vaananen, Kati Autinen, Sakari Kuosmanen, Markku Peltola. Finlandia 1996 96′
Presentato in concorso nel 1996 al Festival di Cannes, Nuvole in viaggio (disponibile ora su MUBI), segnò per Aki Kaurismäki una svolta nella propria carriera, donandogli maggiore visibilità nel panorama del cinema d’autore europeo e inaugurando una strada artistica in risalita, dopo la prematura e destabilizzante scomparsa del suo attore feticcio, Matti Pellonpää. Con Nuvole in viaggio il regista addita una piaga sociale nazionale dell’epoca, quella della disoccupazione che travolse la pur rinomata Finlandia, appena entrata nell’UE con consensi unanimi per il suo welfare solo apparentemente solido.
Così l’odissea del fallimento e della frustrazione che investe i due neodisoccupati protagonisti, Lauri e Illona (Kari Väänänen e Kati Outinen), apre uno scorcio commiserevole sulle ultime sacche di povertà. Ma sempre un passo indietro dalla disperazione, nella dignità stoica e nella speranza quietamente combattiva di esclusi baciati da un raggio di luce, dopo tante beffarde sconfitte e porte in faccia.
Lauri e Illona, marito e moglie, lavorano a Helsinki come tranviere e capocameriera. Una tempesta però si rovescia sulle loro ordinarie e mansuete esistenze: il licenziamento di entrambi, rispettivamente per la chiusura del ristorante e per il taglio di personale nel settore trasporti. Entrambi al verde, iniziano una peregrinazione tra inciampi burocratici, uffici di collocamento inaffidabili, sfruttatori di disoccupati, datori di lavoro di malaffare, persino un pestaggio. Non tutto però è perduto: le nubi più scure possono viaggiare e il cielo rasserenarsi improvvisamente con un colpo di scena dietro l’angolo.
Si sorride in Nuvole in viaggio, titolo che si deve alla trascinante canzone intonata nel finale. E si sorride nonostante il senso di precarietà, il decoro perduto o sbeffeggiato, i tiri mancini del sistema capitalistico, i rovesci della fortuna. Più che per una compiuta commistione di generi, di dramma e commedia, il film si staglia per le striature ilari e dolci del susseguirsi di sfide e tonfi, per la sopravvivenza dell’amore di coppia pur nelle traversie, come in un romanzo del mondo antico. Ma, ancor di più, per l’affacciarsi di una fede nella speranza, per uno sguardo in fuori campo finalmente rivoto a un happy ending per nulla scontato.
Kaurismäki prosciuga la messinscena e la innalza a un grado di astrazione atemporale, eludendo il rischio di trappole melense, di un pietismo d’accatto, di mortificazione della forza dignitosa dei suoi personaggi. Riducendo l’adozione di primi piani a favore di campi medi, la cinepresa ingloba Lauri e Illona in spazi interni semivuoti, silenziosi e sobri, ma mai asettici, tra arredi frugali ma mai degradanti, in un manto scenografico retrò che richiama gli idolatrati anni Cinquanta, pur ancorandosi a un indefinito presente. In cromatismi blu (colore della tristezza per antonomasia) squarciati da venature purpuree opposte, Nuvole in viaggio dispiega un universo autoctono e sospeso, eppure tangibile nel suo rievocativo décor, fragrante di un impalpabile velo di sogno e romanticismo.
Se l’ironia è stata da alcuni definita come la riappropriazione di quanto è stato appena enunciato, allora Nuvole in viaggio si configura come una fiaba esistenziale dove l’ironia, quasi sommersa, viene assurta a metro di scansione della vita stessa. Se Lauri, orgoglioso, mostra alla moglie il televisore di ultima potenza appena acquistato, nella sequenza successiva, in azienda, va incontro al licenziamento. Anche per Illona il ribaltamento sornione e malevolo è sempre in agguato: dormire tutta la notte di fronte all’ufficio di collocamento non le permetterà di garantirsi al mattino allettanti offerte di lavoro, anzi. E, dopo tanta angoscia e fatica, sarà persino esoso poter ottenere da un filibustiere l’indirizzo del luogo di lavoro meno attrattivo della città.
Non c’è però accanimento verso i personaggi nello sguardo morale di Kaurismäki, che con ritmo piano e mano asciutta prende i suoi tempi per cogliere la resilienza e l’umanità sofferta ma non rinunciataria né rassegnata di Illona e Lauri, cittadini a buon diritto della galleria di coppie affiatate e stralunate inventate dal regista finlandese, da Ho affittato un killer a Le luci della sera, da Tatjana a Miracolo a Le Havre.
Tutto concorre alla compiutezza di questa commedia misurata nei toni ma traboccante di amabilità, in un incastro miracoloso di ispirazioni ed effetti contrari, dalla performance stranianti eppure empatiche di Kari Väänänen e Kati Outinen, dal taglio estetico stilizzato ma fascinoso che impregna ogni inquadratura, fino alla fede ostinata e contraria al plot che Kaurismäki ripone nel giro di vite possibile che l’esistenza, talvolta, può concedere.
Periplo minimalista di gente umile (e per questo votata a una felicità possibile) che guarda ai numi tutelari di De Sica e Bresson, parabola idealistica ma non irrealistica su una provvidenza tutta laica, aggraziato spaccato sociale su problemi economici grevi, Nuvole in viaggio è un languido tango con un accenno finale rock, un bevuta di birra di poetica malinconia, una delle folate di vento con cui Kaurismäki, da quasi quarant’anni fino a oggi con il recente Foglie al vento, spazza via orpelli e convenzioni filmiche contemporanee, per un cinema bizzarro e laconico, lucido e divertente, politico e catartico.
martedì 19 Novembre 2024, 11:43
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FARGO di Joel ed Ethan Coen con William H. Macy, Steve Buscemi, Frances McDormand, Peter Stormare, Kristin Rudrüd USA 1996 98′
1987, Minnesota: un venditore di auto ingaggia due malviventi per rapire la propria moglie e incassare il riscatto dal facoltoso suocero.
Dopo Mister Hula Hoop, i Coen tornano agli stilemi (low budget), alle architetture di montaggio (nelle sequenze più violente) e alla matrice macabro-grottesca degli esordi, senza dimenticare che, nel frattempo, hanno firmato un’opera autorale come Barton Fink: questo si ripercuote nel minor numero di movimenti della macchina da presa, nella predilezione per il montaggio interno, nello studio cromatico (in bianco), negli straordinari sguardi sui paesaggi innevati in campo lungo (da citare quello ripreso in plongée). Ancora un rapimento (Arizona Junior) e uno pseudo-fatto di cronaca grandguignolesco, ai limiti dell’incredibile, per un caustico (vendicativo?) rientro nel loro stato natio, terra d’immigrati d’origine scandinava: i due fratelli fanno satira, perfidi, sui (mal)costumi di una provincia dove forma e impassibilità hanno sempre la meglio sulla schiettezza (il focoso personaggio di Buscemi è in netto contrasto con gli abitanti della zona). Come spesso nel loro cinema, ciò che incanta è la galleria dei personaggi, con caratterizzazioni in bilico fra realismo e sua deformazione: personaggi tanto fumettistici quanto a tutto tondo, strambi e “provinciali” nel segno di Twin Peaks. Facce indelebili, dai protagonisti (Macy in primis), alle compars(at)e (i bigliettai ossequiosi; la hostess col grugno; le due puttanelle…). C’è un minaccioso gigante di cartone all’entrata della città di Fargo: i Coen lo antropomorfizzano in uno dei personaggi, l’inebetito compagno di Buscemi, simbolo, certo, di un’esistenza amara ed esecrabile ma anche contraltare dello squallore quotidiano dei “buoni e retti”, rappresentati dalla mogliettina amorevole interpretata da Frances McDormand (bravissima), che rimprovera con retorica soprappensiero il killer, finendo con un “Non capisco” che non si pone troppi problemi di capire. I Coen sembrano preferire i vissuti con spargimenti di sangue all’incubo casalingo della normalità: è l’ambiguità a fare delle loro opere dei piccoli cult. Gli Spietati, Niccolò Rangoni Machiavelli